Cura della salute: far funzionare l’Europa

Il progetto di un Centro Ricerche Europeo nel campo farmaceutico e vaccinale apre nuove prospettive per superare limiti e fallimenti di un approccio troppo “mercatistico”: un’intervista al Prof. Massimo Florio, “padre” dell’iniziativa

Giuseppe Colombi

Consigliere ALDAI-Federmanager e componente del Comitato di redazione Dirigenti Industria
Nell’incrociarsi delle preoccupazioni legate alla pandemia, alla crisi energetica e ora finanche alla guerra alle porte, con crescente interesse ci si interroga su quanto e come l’Unione Europea svolga i compiti di costruzione unitaria per cui è stata concepita.
In molte circostanze sembrano prevalere ancora egoismi nazionali e contrapposizioni che pregiudicano l’autorevolezza e l’efficacia delle istituzioni comunitarie, condannandole all’impotenza.
In particolare, questo avviene anche nell’ambito cruciale della cura della salute, e se ci si confronta con gli Stati Uniti si riscontra come al di là dell’oceano l’intervento governativo federale abbia giocato e giochi anche oggi un ruolo essenziale nello sviluppo dei più moderni presidi terapeutici.

Oltre oceano siamo nella patria del libero mercato, ma NIH (National Institutes of Health) e BARDA (Biomedical Advanced Research and Development Authority) – istituzioni federali pubbliche con un budget globale annuale di oltre 40 miliardi di dollari – orientano complessivamente il settore sanitario finanziandone l’attività di ricerca, a volte fino al punto di entrare in conflitto con soggetti privati sulla proprietà dei brevetti.
In Europa la vicenda dei vaccini anti-Covid ha evidenziato invece come un approccio totalmente basato sull’acquisto da privati, monopolisti o quasi, abbia indotto diseconomie, inefficienze, ritardi e disequilibri tra le diverse nazioni. 

Anche in ALDAI nello scorso gennaio se ne era parlato, nel corso di un convegno intitolato “La salute in Europa”. Sintetizziamo quanto Raffaele Tasserini, Coordinatore GdL Dirigenti per l'Europa di ALDAI, scrisse allora: 
“Contro un nemico invisibile, mutevole, che non conosce frontiere e ha come alleata validissima per la sua diffusione la globalizzazione, vale a dire la libera e sempre più intensa circolazione di uomini, merci e capitali su tutto il pianeta, la difesa da approntare deve essere all’altezza del pericolo. 
Come europei, dobbiamo unire le nostre migliori forze scientifiche, tecniche e sanitarie-militari per concentrarle in un unico obiettivo: prevenire ed evitare che in futuro si ripeta quanto oggi subiamo.
Questo può essere realizzato attraverso l’Agenzia Europea per la Salute, come viene proposto da Massimo Florio, professore di Economia Pubblica all’Università Statale di Milano, su incarico del Parlamento Europeo. 
Il compito dev’essere quello di finanziare e coordinare le attività di ricerca scientifica pubblica e privata europea, con opportuni accordi e contratti, per realizzare e brevettare i farmaci strategici.
Sarà necessario non solo predisporre i contratti con le Aziende e i siti di produzione, ma anche le strutture logistiche indispensabili, pronte alle operazioni di intervento per l’isolamento dei focolai, lo stoccaggio, il trasporto, la distribuzione e la somministrazione dei vaccini e dei farmaci”.

Il Prof. Florio ha recentemente sviluppato queste idee nel libro La privatizzazione della conoscenza. Tre proposte contro i nuovi oligopoli (Laterza 2021). L’idea guida è quella della costituzione di un Centro Ricerche Europeo in ambito farmaceutico/vaccinale, capace di orientare le scelte fondamentali della Comunità nel campo.
A lui abbiamo avanzato alcune domande, e qui di seguito si trovano le sue risposte.
In Italia in passato esistevano due strutture di eccellenza in ambito farmaceutico-vaccinale, l’Istituto Sclavo di Siena e il Centro Ricerche di Nerviano: la prima, acquisita dall’Eni, è poi passata in mani private e non è chiaro quanto mantenga il suo ruolo strategico nazionale; la seconda, il Centro Ricerche ex Farmitalia Carlo Erba di Nerviano, è diventata dapprima di proprietà regionale per poi essere ceduta – a fine 2017 – a un gruppo cinese.

Come garantire a una nuova struttura un futuro serio, privo di esiti di questo genere?
Il nostro Paese è diventato un grande produttore di farmaci su licenza di terzi, o di prodotti di cui sono scaduti i brevetti, mentre la ricerca originale da parte delle imprese non è stata al passo con i tempi. Per quanto singole imprese mantengano alcuni presidi in determinate nicchie, la scala di queste attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) non è all’altezza delle sfide del nostro tempo e soprattutto del futuro. La globalizzazione dei commerci è anche globalizzazione dei rischi pandemici, per l’aumento dei contatti fra aree densamente popolate, come del resto è stato in passato con le epidemie di peste legate ai traffici marittimi, a Venezia come ad Atene. Il problema, tuttavia, non è solo italiano. Tutti gli esperti concordano che una zoonosi, cioè un salto dalle specie animali all’uomo era atteso, soprattutto per i virus a RNA come i coronavirus. Ma l’epidemia del SARS COV-1 nonostante quasi vent'anni di preavviso, non è bastata a mettere le imprese al lavoro sul tema delle zoonosi: ricerca ritenuta troppo rischiosa e poco remunerativa. Non ci sono poi solo le malattie infettive nuove, ma anche quelle note che hanno sviluppato forme resistenti agli antibiotici. E molte patologie sono legate all’invecchiamento della popolazione e ad altri fattori socioeconomici. Non ci si può aspettare che le imprese mettano in cima ai loro progetti i rischi sanitari quando l’investimento appare loro non abbastanza remunerativo. Sono i governi a dover prendersi le loro responsabilità. Per questo, su richiesta dello Science and Technology Panel (STOA) del Parlamento Europeo, abbiamo proposto ‘Biomed Europa’, una infrastruttura comune per la R&S di vaccini e farmaci del futuro, no-profit e sovranazionale. 
Prof. Massimo Florio

Prof. Massimo Florio

Chi sono i principali soggetti interessati e coinvolti nell’iniziativa?
Nella proposta che abbiamo formulato, dopo avere consultato 60 esperti internazionali in vari ambiti, il modello di riferimento prevede che la comunità scientifica esprima una strategia a lungo termine (almeno vent’anni), coinvolgendo nel processo fondativo le istituzioni comunitarie, gli Stati membri e sperabilmente anche altri Paesi con eccellente ricerca biomedica come Regno Unito e Svizzera, o con importanti risorse per il no-profit come la Norvegia. Oltre alle istituzioni pubbliche, non escludiamo un coinvolgimento delle imprese, ma non come destinatarie di sussidi incondizionati, come è successo per il Covid-19, quando l’amministrazione Trump ha stanziato ed erogato 18 miliardi di dollari senza negoziare su prezzi, logistica, proprietà intellettuale. Occorre un rapporto con soggetti privati, comprese piccole e medie imprese innovative, che lavorino in base a contratti equi con il nuovo soggetto pubblico. 

È stato definito un cammino strategico per la nuova struttura, dimensioni, budget e cronogrammi?
È presto per uno studio di fattibilità ‘esecutivo’, ma sono state formulate diverse ipotesi, che prevedono queste alternative: un focus sulle malattie infettive oppure su un portafoglio di tecnologie polivalenti; una struttura centrata prevalentemente su propri laboratori oppure un modello policentrico. Il budget di riferimento che abbiamo valutato nell’ipotesi più cauta è di circa 3,5 miliardi di euro all’anno, che corrisponde alla dimensione della ricerca svolta internamente dagli statunitensi National Institutes of Health, con 1.200 capiprogetto, struttura che risponde al Ministero federale della salute. In un’ipotesi più ambiziosa serve un budget doppio, circa 7 miliardi, pari per confronto a quello dell’Agenzia Spaziale Europea (un’esperienza cui guardare attentamente come buona pratica). I tempi dipenderanno interamente dalla politica: noi come ricercatori facciamo delle proposte, ad altri prenderle in considerazione.
Questo progetto si inserisce in un più vasto ambito di ripensamento dell’Europa “mercatistica” che negli ultimi trent’anni ha progredito molto lentamente verso un’unità più sostanziale, dato che è per così dire stata sviluppata “al contrario”, partendo dalla moneta. 

Ove realizzato, il progetto costituirebbe un’inversione di tendenza?
Nel mio libro più recente La privatizzazione della conoscenza sostengo che la UE dovrebbe avere propri grandi progetti comuni anche in campi come la transizione energetica e il governo dell’economia digitale. Nei miei studi precedenti avevo sostenuto, per oltre dieci anni, che la liberalizzazione ‘forzata’ dei mercati del gas e dell’elettricità era imprudente, perché si tratta di beni di prima necessità in presenza di monopoli ed oligopoli. Immaginare la libera concorrenza dove non può esistere è una fantasia, e purtroppo si è visto a che cosa porta. La CE, sul modello britannico e di altri, ha costretto a uscire dai contratti a lungo termine per il gas, ha indebolito i grandi acquirenti pubblici, ha insistito per mercati spot che sono terreno di coltura ideale per le bolle speculative. Nel caso dell’economia digitale, l’Europa si è arresa alle Tech Giants americane e cinesi senza neppure provare a combattere, e ora i nostri dati personali, amministrativi e industriali sono per lo più in altre mani. Occorrono infrastrutture comuni anche in questi campi, un nuovo tipo di impresa pubblica sovranazionale, appunto come l’Agenzia Spaziale Europea. 

Come far coesistere questo progetto con le possibili evidenti resistenze dei “Big Pharma”?
Ho avuto diversi incontri con manager e imprenditori. EPFIA, la federazione europea delle associazioni del settore, ha partecipato alla discussione presso il Parlamento Europeo – il 28 settembre scorso – con un atteggiamento di attesa, non direi di palese ostilità. In definitiva stiamo parlando di campi di ricerca che per molte imprese non sono più considerati strategici. Le grandi imprese non possono seriamente immaginare che il modello futuro sia quello attuale che ha portato la CE, quindi noi come contribuenti, a spendere 71 miliardi di euro (dati al 31 dicembre 2021, fonte European Court of Auditors) per l'acquisto dei vaccini Covid-19, praticamente senza potere negoziale da parte pubblica.  Inoltre, ci sono anche le piccole e medie imprese innovative, le “Contract and Research Organizations” (CRO) ed altre ancora che potrebbero vedere in Biomed Europe una grande opportunità. 

Quali saranno i primi passi orientati verso l’attuazione del progetto?
Prima di poter parlare di attuazione occorre che il Parlamento Europeo e le altre istituzioni della UE facciano proprie, eventualmente integrandole o modificandole, le proposte dello studio, che Lo STOA Panel ha ufficialmente trasmesso a tre comitati parlamentari. Vedremo come risponderanno. Le Commissarie CE rispettivamente alla Ricerca e alla Salute hanno ricevuto ufficialmente lo studio. Il Forum Diseguaglianze e Diversità, coordinato da Fabrizio Barca, ha lanciato un documento su iniziativa fra l’altro di Silvio Garattini e Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Farmacologico “Mario Negri” di Milano, sottoscritto da oltre 1.300 scienziati (fra cui il Nobel Parisi), medici ed altri cittadini. Il testo si può trovare ed eventualmente sottoscrivere a questo link

Qui finisce l’intervista al prof. Florio: c’è da augurarsi che la sua visione trovi l’interesse e l’ascolto che merita da parte degli interlocutori istituzionali coinvolti.
Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.

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