Il sistema sanitario lombardo fra vecchie e nuove sfide

La pandemia ha messo a dura prova il sistema sanitario che necessita di un piano armonico, nazionale e territoriale, per assicurare servizi, infrastrutture e valorizzazione delle competenze per far fronte alle sfide presenti e future

Giuseppe Nielfi

Presidente Nazionale SUMAI Sindacato Medicina Ambulatoriale

Il quadro generale 

In questo momento l'attenzione dei cittadini e delle autorità sanitarie è monopolizzata dalla pandemia in termini sia di contrasto alla diffusione, sia di cura dei soggetti ammalati, sia di progressione possibilmente rapida della campagna vaccinale. Dobbiamo segnalare che, purtroppo, le altre criticità del sistema sanitario non sono per questo scomparse e, con il progressivo controllo dell’infezione da Covid-19, si dovrà necessariamente mettere mano alla soluzione di problemi quali: obsolescenza delle attrezzature, liste d'attesa, cure di prossimità, trattamenti domiciliari, gestione dei malati cronici. La partita si gioca questa volta non in ospedale ma sul territorio; lo sviluppo dell'assistenza territoriale è la chiave di volta di un nuovo sistema sanitario che sia idoneo a rispondere alle sfide incombenti, vecchie e nuove. Gli ostacoli sul cammino sono tanti, anche focalizzandoci solamente sulla nostra regione, la Lombardia.

Le modifiche al Titolo V della Costituzione: 21 sistemi sanitari regionali

È sempre più urgente un ripensamento totale del nostro sistema sanitario nazionale, decomposto, dopo l’approvazione delle modifiche costituzionali del titolo V, in ventuno sistemi sanitari regionali, ognuno declinante in modo autonomo l’organizzazione de sevizi sanitari. Già prima del Covid il sistema sanitario regionale aveva evidenziato criticità importanti; la prima, concretamente avvertita da tutti, rappresentata dalla lunghezza dei tempi di attesa per le prestazioni, soprattutto ambulatoriali, la seconda, ben presente alle autorità sanitarie, data dalla sostenibilità del sistema, per il progressivo aumento dei costi dell’assistenza ai malati cronici, che pur costituendo solo il 25-30% della platea degli assistiti dal servizio sanitario regionale, assorbono il 75-80% della spesa sanitaria. La tendenza è di continua crescita, così da mettere a rischio gli investimenti sul rinnovamento e adeguamento tecnologico, la compartecipazione pubblica alla spesa farmaceutica, la prevenzione. La soluzione proposta e tuttora valida è passare alla presa in carico della cronicità, con l’obiettivo di mantenere lo stato di equilibrio della patologia cronica, curata e monitorata costantemente, senza aspettare l’aggravamento improvviso della patologia per agire, con interventi, quasi sempre in regime di ospedalizzazione, estremamente costosi. Questo era l'obiettivo principale della legge regionale 23 del 2015: la costituzione di gruppi di medici del territorio per la presa in carico delle cardiopatie, dell’ipertensione arteriosa, del diabete, delle malattie polmonari, solo per citare le principali.

L'edilizia sanitaria territoriale

Un altro tema è quello dell'edilizia sanitaria territoriale. Ricordiamo che, nel 1978 il nascente servizio sanitario nazionale ereditò il patrimonio edilizio dei disciolti enti mutualistici costituito da una rete capillare di strutture poliambulatoriali, la maggior parte provenienti dall’INAM, poste nei poli industriali delle province lombarde, create per portare l'assistenza sanitaria generalista e specialistica vicino ai luoghi di lavoro dei cittadini. Questa dote ha subito negli anni alterne fortune, ma su di esse si è investito assai poco e tante strutture, divenute col tempo obsolete, sono state in gran parte chiuse e dismesse. Stesso destino hanno subito le dotazioni tecnologiche, specie radiologiche, che necessitano di un rinnovamento e di una delocalizzazione, rispetto agli ambiti esclusivamente ospedalieri, in cui oggi sono allocate. Bisogna ora invertire la tendenza ricostruendo presidi sanitari territoriali localizzati in base allo sviluppo demografico regionale, così da formare nuovamente una rete capillare e omogenea di punti di accesso alle prestazioni sanitarie e ai servizi del sistema sanitario regionale.

Gli specialisti ambulatoriali del territorio

Il potenziamento del territorio non è solo tema edilizio e tecnologico, ma riguarda anche il personale. Non bastano i medici di medicina generale sul territorio, servono anche specialisti, personale infermieristico, personale di assistenza sociosanitaria. Ricordo che in Italia, caso unico fra i Paesi europei, abbiamo una risorsa assai sottovalutata: gli specialisti ambulatoriali del territorio, categoria creata dall’INAM, con rara lungimiranza, negli anni '50 del secolo scorso, che fornisce prestazioni specialistiche in tutte le branche in cui si articola la complessità della medicina moderna, con un focus specifico al trattamento extra-ospedaliero, sia in ambulatorio che al domicilio del paziente; questi specialisti saranno determinanti, se la categoria verrà adeguatamente potenziata, nel garantire l’efficacia della presa in carico territoriale delle patologie più complesse o meno comuni, riducendo l'accesso al pronto soccorso e all'ospedalizzazione. Al riguardo pensiamo a tanti malati cronici che non presentano una sola ma due o tre patologie (il diabetico che al tempo stesso è cardiopatico e presenta una neuropatia), o patologie di specifica competenza specialistica (ad es. dell’occhio o dell’orecchio), che richiedono strumentazione e competenza specialistica per essere diagnosticate e curate. Nuova sfida per la medicina del territorio è ora la gestione domiciliare dei malati di Covid-19, soluzione necessaria per ridurre la pressione sulle strutture ospedaliere, e consentire così la presa in carico anche delle altre patologie che necessitano di ospedalizzazione.

La rete capillare di competenze sul territorio

Teniamo presente però che lo sviluppo di questa rete diffusa, composta da: medici di medicina generale, specialisti ambulatoriali territoriali, personale infermieristico, personale amministrativo, e per la componente sociale, da psicologi e personale di assistenza alla persona, non decolla se i vari nodi non sono interconnessi in tempo reale e se non si presidia il domicilio del cittadino, soprattutto mediante la tecnologia, con il teleconsulto e il telemonitoraggio e l’incremento delle cure domiciliari. Banalità: “a chi mi rivolgo per fare le iniezioni intramuscolari se il mio medico mi ha prescritto un ciclo di antibiotico per via iniettiva?” “Devo continuare ad affidarmi a un parente/conoscente che si improvvisa sanitario?”. Non dimentichiamo che finora l’assistenza a casa del malato, specie se non autosufficiente, è stata garantita in larga misura dal cosiddetto welfare familiare, quasi sempre declinato al femminile; questo si è potuto realizzare grazie a tanto impegno e sacrificio, anche con l’aiuto della “badante”, laddove le condizioni economiche familiari lo hanno consentito, così da creare questa nuova categoria professionale, unica in Europa. Non è questo il modello organizzativo di un sistema sanitario che vuol essere equo, universale e solidale.

Le competenze nazionali e regionali

Resta un punto fondamentale da chiarire in via preliminare: qual è il punto di equilibrio fra competenze regionali e nazionali? Bisogna capire se gli interventi del Recovery Fund andranno a finanziare il Servizio Sanitario Nazionale oppure i 21 sistemi sanitari regionali attuali (ciascuno con un proprio modello), senza la definizione a livello nazionale di un modello unico erogativo, che dia una risposta in termini di risorse umane, di dotazione infrastrutturale e tecnologica, di procedure operative. Ha senso proseguire su questa deriva regionalistica? La risposta logica è no, ma il tema è squisitamente politico.
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