Sanità lombarda al tempo del Covid

L'emergenza impone riforme del sistema sanitario per far emergere valori professionali e manageriali organizzati per far fronte ai fabbisogni della longevità utilizzando tecnologie e modelli operativi utili a rispondere alle esigenze dell'intera collettività

Giuseppe Ricciardi

Segretario regionale CIMO Lombardia
Il Sistema Sanitario Nazionale, nel gestire la pandemia da Sars Covid-19 ha mostrato tutta la sua fragilità. La difficoltà ad affrontare questa emergenza proviene da lontano. 

In primis la nostra Organizzazione Sanitaria si è trovata impreparata, avendo rimosso la possibilità di trovarsi di fronte a un’epidemia da agenti infettivi, che pure ha costituito fino agli anni 50 la prima causa di morte e, ciclicamente nella storia, ha falcidiato la popolazione. Nel secolo scorso ricordiamo le epidemie di poliomielite, colera, asiatica, oltre a tifo e tubercolosi. 

Sono stati edificati Ospedali dedicati, ormai in gran parte smantellati, organizzati in padiglioni. I reparti si chiamavano divisioni, proprio a rimarcare l’isolamento legato alla possibilità di contagio. Dagli anni '70 gli ospedali si sono organizzati progressivamente per assistere al meglio l’emergenza non infettivologica.

Abbiamo riportato enormi successi nella chirurgia, nella cura dei tumori, in particolare nell’oncoematologia, nel trattamento delle malattie cardiovascolari e nella radiologia interventistica. Ma purtroppo la medicina territoriale è rimasta quella di 50 anni fa, con qualche eccezione, e spesso si è trasformata, anche contro la volontà dei colleghi, in una medicina burocratica. 

Necessità di armonizzare l'organizzazione

Il primo grande difetto viene dalla netta separazione contrattuale tra il medico dell’ospedale e quello del territorio. Il medico ospedaliero ha un contratto di lavoro dipendente, siglato all’ARAN (Agenzia per la Rappresentanza Negoziale della Pubblica Amministrazione) ed è un dirigente pubblico. Non ha un’area specifica come ad esempio la Magistratura. La contrattazione di secondo livello avviene a livello regionale, creando di fatto ventuno sanità diverse. Questo non sarebbe di per sé un difetto, anche in Germania il servizio è gestito dai Lander, fatto salvo che vengano garantiti i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) e che le Regioni siano omogenee. 

La Lombardia ha 10 milioni di abitanti e il Molise 150 mila. Il medico di medicina generale e il pediatra di libera scelta sono liberi professionisti e firmano una convenzione nazionale con la SISAC (Struttura Interregionale Sanitari Convenzionati). 

È evidente che se non riconduciamo le contrattazioni sotto un unico soggetto, pur nelle differenze, la possibilità di interrelazione e collaborazione sarà molto scarsa. Dovrebbe essere il Ministero della Salute, che attualmente ha limitate possibilità di intervento nella Organizzazione del Lavoro. 

La longevità ha modificato la tipologia dei servizi richiesti

Negli ultimi anni l’epidemiologia è profondamente cambiata. Negli anni '80 nella Regione Lombardia nascevano 160mila bambini e la popolazione sopra i 65 anni era di circa un milione. Oggi nascono meno di 70mila bambini e la popolazione sopra i 65 anni è più di 3 milioni. Mentre negli anni '70/'80 le possibilità diagnostiche e terapeutiche erano limitate, erano agli inizi l’ecografia e la TAC, oggi disponiamo di tecnologie sempre più sofisticate e costose e approcci terapeutici avanzati. Di fronte a questo la rete ospedaliera si è limitatamente modificata.
Riteniamo che ormai debbano esistere due tipologie di ospedali, i così detti HUB con DEU (Dipartimento di Emergenza e Urgenza) concentrati nei grandi Ospedali e nell’IRCCS e altri Ospedali DEA (Dipartimento Emergenza e Assistenza), dotati di tutti gli organici e i presidi per una rapida risposta all’emergenza e alla complessità. Gli Ospedali più piccoli non devono essere chiusi ma riconvertiti. Devono garantire quella che è la richiesta maggiore e cioè l’assistenza all’anziano, che presenta cronicità e pluripatologie. 

L’anziano deve trovare negli Ospedali, chiamiamoli di comunità, il suo medico di base associato in modo da garantire l’assistenza h12, dove sono presenti ambulatori con tutti gli specialisti, un congruo numero di personale infermieristico e amministrativo, oltre alla diagnostica di base. Questo ospedale risponderebbe al 90% delle richieste del territorio, potrebbe avere anche un reparto di lungodegenza, a bassa intensità di cura e alleggerirebbe i Pronto Soccorso, che vedono oggi almeno il 70% di accessi impropri. 

Questo modello esteso ai distretti e ai consultori vedrebbe la collaborazione tra medici di famiglia, specialisti ambulatoriali e medici ospedalieri. L’eliminazione delle guardie notturne nei piccoli ospedali comporterà un aumento degli organici negli Ospedali sedi di DEU e DEA, rendendo più appetibile il lavoro ospedaliero, che oggi vede una fuga generalizzata dei medici e del personale sanitario verso il pensionamento o altri impieghi. Qualificherà i medici di famiglia, che lavorerebbero in associazione in spazi più ampi, con personale infermieristico e amministrativo e in stretto contatto con gli specialisti. I medici di famiglia in parte sono già associati, ma un fatto è lavorare in spazi ampi e con molti supporti, piuttosto che in un condominio in spazi ristretti. 

L’organizzazione attuale ha mostrato le sue falle in questa pandemia e ha comportato molte vittime tra i medici di famiglia. Nei piccoli paesi dai medici di famiglia associati verrebbe garantita la presenza alcuni giorni alla settimana per venire incontro alle esigenze della popolazione anziana non in grado di muoversi. Questo tipo di organizzazione, migliorando le condizioni di lavoro, favorirebbe la ricerca dei medici, che altrimenti, come avviene ad esempio in Francia, si concentrano a Parigi e in Costa Azzurra, lasciando sguarnito il territorio periferico. 

Necessità di riformare il sistema sanitario

La riforma deve quindi partire cambiando le normative legislative contrattuali, creando un’area medica scorporata dal pubblico impiego con un unico luogo di contrattazione, pur nelle diverse peculiarità, che permetta di creare osmosi e collaborazione. Per quanto riguarda la riforma della Legge 23 riteniamo che le ATS, da ridurre al minimo, debbano occuparsi solo di programmazione e controllo. Tutti i soggetti eroganti prestazioni devono affluire nelle ASST, dove, come sopra descritto, deve avvenire un’intensa collaborazione tra Ospedale e Territorio, con una vera presa in carico del paziente e un’effettiva continuità assistenziale. Da ultimo riteniamo che debba essere incentivata la Libera Professione Intramoenia (tra le mura), sia all’interno degli ospedali che nella modalità esterna di intramoenia allargata. 

È falso che le prestazioni in Libera Professione vengano scelte dal cittadino che non trova risposta nel Servizio Sanitario Nazionale. La Regione Lombardia ha i minimi tempi di attesa nel SSN e la maggior Libera Professione. La quale va incontro al diritto del cittadino a scegliere il proprio medico. Presenta inoltre i seguenti vantaggi: la prestazione non è a carico del SSN, intercetta prestazioni pagate dalle assicurazioni con introiti per il SSN. 

Eventuali ricoveri e prestazioni diagnostiche in seguito alle visite confluirebbero negli ospedali e non nelle cliniche convenzionate con risparmi per la Regione. L’esercizio della Libera Professione è inoltre un incentivo per i medici a rimanere negli ospedali, vista anche la scarsa remunerazione stipendiale.
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