Manager in calo, una tendenza da invertire
Superare il nanismo delle imprese italiane favorendo una più ampia presenza manageriale è un obiettivo essenziale per dare una prospettiva di crescita economica e occupazionale al Paese in un contesto globale.
Mario Cardoni
Direttore Generale Federmanager
Innovazione, internazionalizzazione e, più in generale la necessità di gestire maggiori complessità, impongono un ripensamento del nostro modello produttivo che rischia di perdere pezzi significativi. Il sistema industriale – motore della nostra economia – continua a registrare una riduzione di manager con grande dispersione di competenze non solo qualitative ma anche valoriali. Le grandi imprese proseguono nelle azioni di consolidamento anche con l’obiettivo di ridurre i costi rivedendo le strutture organizzative, mentre il Governo continua a credere che le imprese possano fare il salto di qualità riducendo gli oneri contributivi e fiscali che gravano sulle stesse o incentivando l’innovazione dei macchinari con il “super ammortamento”, interventi utili per dare maggior respiro ma non determinanti per un reale cambiamento. Occorrerebbe invece incentivare primariamente l’introduzione di nuove competenze per favorire l’investimento sulle persone, che sono il valore vero di un'impresa e che fanno davvero la differenza, a partire da un buon management. Proprio su queste convinzioni Federmanager ha messo a punto un servizio di “certificazione delle competenze” (temporary manager; export manager, manager di rete e innovation manager) per offrire:
- ai manager un'opportunità di reinserirsi nel mercato del lavoro attestando le proprie competenze;
- alle imprese, in particolare alle PMI, la possibilità di avere un serbatoio di profili manageriali portatori di esperienze e competenze certificate.
Purtroppo non è quello che sta succedendo. I dati (fonte Inps anno 2015), tendenzialmente in linea con gli anni precedenti, indicano che sono state circa 7.000 le risoluzioni di rapporti di lavoro dirigenziali, di cui l’indagine Federmanager monitora un campione ampio e molto significativo. Entrando nell’analisi dei dati relativi al 2015, infatti, si evidenzia che il numero complessivo delle risoluzioni dei rapporti di lavoro gestiti dal nostro sistema è pari a 4.411 casi (87% uomini e 13% donne), sostanzialmente in linea con i numeri registrati negli ultimi 5 anni. Le risoluzioni consensuali (67%) continuano a rappresentare la modalità prevalente di risoluzione del rapporto di lavoro dirigenziale, mentre quelle che nascono da provvedimenti di licenziamento sono il 31% del totale (di questi oltre il 14% del totale è avvenuto nell’ambito delle procedure di licenziamento collettivo ai sensi della legge 223/91). Solo nel 2% dei casi la risoluzione del rapporto di lavoro del manager avviene per dimissioni volontarie. Da evidenziare che il 75% dei casi di licenziamento si conclude con un accordo transattivo tra le parti. A tale proposito molto indicativo è il dato relativo ai licenziamenti per giusta causa nell’ambito dei quali la percentuale di accordo successivo alla intimazione del provvedimento di licenziamento sale al 96% confermando che cresce il numero di aziende che utilizzano questo approccio “aggressivo” per risolvere il rapporto di lavoro con il dirigente. I licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, cioè quelli di carattere organizzativo, rappresentano oltre l’85% dei casi confermando la prosecuzione, da parte delle aziende, di processi di riorganizzazione se non di ristrutturazione che colpiscono fortemente la componente manageriale: il 64% avviene per soppressione della posizione, grazie al favor della nostra magistratura che normalmente guarda con molta più attenzione le ragioni del lavoratore rispetto a quelle dell’impresa, ma non nel caso del dirigente. I licenziamenti adottati per giustificato motivo soggettivo sono il 3,5% del totale. È da evidenziare, rispetto all’anno precedente, una crescita significativa
(+12%) di quelli per motivi disciplinari e per interruzione del rapporto fiduciario (+4%). Il numero più elevato di risoluzioni (73%) si è verificato nell’area Nord-Ovest del Paese (Liguria, Lombardia, Piemonte e Val d’Aosta) ovviamente motivato dalla più alta concentrazione in quest’area di aziende e quindi di dirigenti: la Lombardia presenta oltre l’82% del totale delle risoluzioni dell’area Nord-Ovest. Al Centro le risoluzioni si attestano al 14%, nel Nord-Est all’11%. Anche se in aumento rispetto agli scorsi anni, resta di scarsa entità la quota percentuale di risoluzioni rilevata per il Sud e le Isole (2%). In relazione alle aree aziendali, anche nel 2015, si conferma il dato negativo registrato dalle aree aziendali Tecnica/Pro-
duzione e Commerciale/Marketing che complessivamente registrano oltre il 40% delle risoluzioni avvenute, mentre un sensibile incremento (6%) ha interessato l’area Comunicazione. Anche per quanto riguarda i settori merceologici maggiormente interessati dalle risoluzioni, la maggior parte dei casi di risoluzione si è registrato nei settori dell’Informatica/Elettronica/TLC (31%) e del Meccanico/Siderurgico (24%) confermando i dati già emersi negli scorsi anni. Questo è il quadro, ancora cupo, che abbiamo registrato! Siamo convinti di essere dalla parte della ragione: per vincere la sfida della competitività il tema della managerializzazione delle imprese diventa fondamentale ed è la qualità delle risorse umane, e dei manager in particolare, a fare la differenza nei fattori determinanti per il successo. Speriamo che anche gli altri se ne convincano presto, non abbiamo molto tempo.
01 novembre 2016