Dalla Lost Generation alla Beat Generation

Un viaggio nella letteratura americana tra gli anni ’20 e gli anni ’50 del XX secolo

Daniela Savini


Nell’ampio e variegato panorama culturale americano che ha caratterizzato il primo e il secondo dopoguerra, gli artisti della Lost Generation e quelli della Beat Generation hanno sicuramente rappresentato, anche se con differenti peculiarità, l’ansia di quella libertà e di quei cambiamenti che il mondo in ricostruzione avrebbe potuto offrire.

“Tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra, siete una generazione perduta”. Sono queste le parole usate dalla scrittrice Geltrude Stein, nel cui salotto parigino si riunivano, nei ruggenti anni Venti, intellettuali e artisti provenienti dall’Europa e dall’America, per definire una generazione di giovani che entrarono nella maggiore età durante la Prima Guerra Mondiale e vissero per il resto della vita segnati da quell’esperienza traumatica, sebbene oggi, con quest’espressione, ci si rifaccia esplicitamente al gruppo di scrittori americani che soggiornarono a Parigi tra le due guerre, tra gli altri Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, John Steinbeck, Thomas Stearns Eliot, John Dos Passos, Henry Miller, Ezra Pound, Dunja Barnes e Sherwood Anderson.

«Chi è sopravvissuto a una guerra, qualunque tipo di guerra, sa che essere beat non significa tanto esser morti di stanchezza, quanto avere i nervi a fior di pelle, non tanto “essere pieni fino a qui” quanto sentirsi svuotati. Beat descrive uno stato d’animo spoglio di ogni sovrastruttura, sensibile alle vicende del mondo esterno, ma insofferente della banalità. Essere beat significa essersi calati nell’abisso della personalità, vedere le cose dal profondo…». Queste frasi fanno parte dell’articolo intitolato This Is the Beat Generation, pubblicato nel 1952 sul New York Times da John Clellon Holmes, a seguito di una sua conversazione con Jack Kerouac, nella quale Kerouac ricordava la bellezza della Lost Generation, contrapponendo però, per la propria generazione, al termine “perduta” quello di “ritrovata”.

Il viaggio degli artisti della Beat Generation era cominciato durante i primi anni del secondo dopoguerra, quando la loro concezione artistica esprimeva la volontà di farla finita con gli schemi tradizionali, per creare una visione più libera e ribelle dell’arte. Davano voce a un forte spirito di ribellione e di repulsione verso i valori tradizionali della società americana materialistica e conformista reduce dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale, repressa dall’ombra del Maccartismo, inespressiva, inadeguata e sempre pronta a divorare l’immaginazione e la libertà dei suoi membri più eccentrici. La seconda parte dei tranquillized Fifties, fatti di villette, bambini, prati ben irrigati, televisore ed elettrodomestici in tutte le case e almeno due auto in ogni garage, vedono i giovani leggere Salinger e Kerouac, e Sylvia Plath scrivere, oltre alle sue poesie, il suo unico romanzo La campana di vetro che divenne quasi un oggetto di culto e si trasformò in un vero e proprio fenomeno sociale. La storia di Esther – alter ego della scrittrice – rappresentava quasi alla perfezione un sentimento comune tra le giovani donne statunitensi degli anni ’50: l’impossibilità di conciliare il proprio essere donna (quindi costretta ad adattarsi a uno dei ruoli previsti dalla società) con le proprie ambizioni e i propri sogni. 

La definizione di Beat Generation ricorda come un’eco l’altra famosa di G. Stein, perché già nel primo dopoguerra c’era stata una situazione analoga, a causa del crescente pessimismo degli intellettuali nei confronti dei valori tradizionali, ormai inadeguati alle nuove istanze sorte all’indomani della Grande Guerra. Si percepiva l’esigenza di dare una nuova forma al presente affrancandosi dal passato e inventando linguaggi completamente diversi che investissero l’Arte nella sua totalità: dalle arti visive a quelle performative, dalla letteratura alla musica. Ne scaturirono concezioni realistiche moderne, caratterizzate da scritture più complesse, uso di linguaggi plastici o ricercatezze stilistiche.

Una nuova generazione di scrittori e poeti si affacciò sulla scena culturale americana nel primo dopoguerra o per descrivere, come fece magistralmente Francis Scott Fitzgerald in alcuni suoi romanzi, i tratti essenziali di una gioventù inquieta, ribelle, esibizionista, che però, dietro a una corazza di finta disinvoltura ed euforia, celava l’insicurezza e il terrore di una generazione che aveva assistito o vissuto gli orrori della Grande Guerra.
O per cercare di creare, e in questo Ernest Hemingway fu maestro, un qualche simulacro di vitalità, una specie di struttura di pensiero e di comportamento in grado di superare il senso di alienazione prodotto dall’incomprensibile collasso della civiltà occidentale a seguito della Prima Guerra Mondiale, con uno stile tutto nuovo, non troppo diverso dal linguaggio parlato, fatto di brevi frasi, di descrizioni essenziali e di un ampio uso del dialogo.  

La fine della Prima Guerra Mondiale rappresentò anche la linea di demarcazione iniziale di quel movimento artistico-culturale afroamericano noto come Rinascimento di Harlem, perché il suo fulcro vitale fu il quartiere di Manhattan che, tra gli anni Venti e Trenta, divenne una mecca culturale, culla di una straordinaria generazione di artisti neri che seppero rompere stereotipi e barriere razziali, affermando la propria ricchezza culturale e autonomia artistica. Harlem siglò l’affermazione della musica jazz e dell’arte afroamericana nel mondo, ma face anche da sfondo ai grandi drammi dell’America del XX secolo, dai ricorrenti disordini a sfondo razziale, descritti da Ralph Ellison in Invisible Man (1952), all’uccisione di Martin Luther King e Malcolm X.
E lo stile jazz bebop fu non soltanto l’universo sonoro che attraversò e animò la letteratura della Beat Generation, ma ne costituì anche un modello di tecnica compositiva: quella che Jack Kerouac chiamava “spontaneous bop prosody”, ossia una forma di scrittura che scaturiva dagli esiti dell’improvvisazione jazzistica. Nel rielaborare il patrimonio linguistico dell’ambiente del jazz e più in generale della cultura afroamericana del tempo, gli scrittori della Beat Generation crearono un linguaggio nuovo, libero da condizionamenti formali, che riecheggiava le aspre tonalità gergali del mondo della strada americana e delle periferie urbane. 

Molti giovani artisti della Lost Generation decisero di viaggiare, di raggiungere l’Europa, in particolare Parigi, considerata negli anni Venti epicentro artistico del mondo, perché si sentivano orfani della cultura europea, sradicati in una nazione che non possedeva una storia e tanto meno una propria storia culturale. Dalla schiera di questi “orfani” gli artisti della Beat Generation presero il nomadismo; anche loro vivevano come sradicati, irrequieti, presi dalla frenesia del viaggio, che non ammetteva soste e non conosceva mete, emblema di una costante ricerca di un proprio posto nel mondo, di un’insofferenza verso la cultura mainstream, contrapponendo ai modelli della happy family medio borghese e del sogno americano uno stile di vita trasgressivo e libertario. Ma, a differenza degli “espatriati”, furono sì nomadi, ma in patria.

Negli anni Trenta il numero di persone che attraversavano il Paese sui treni merci o sulle vecchie Ford modello T crebbe enormemente, ma non si trattava solo di hobos, ma anche di emarginati, di disoccupati disperatamente in cerca di lavoro, di lavoratori stagionali, che trovarono il loro “cantore” in John Steinbeck, che, ad esempio, nel romanzo Furore, si ispirò alla drammatica migrazione interna dei cosiddetti Okies, i contadini dell’Oklahoma cacciati dalle loro terre dalle forze congiunte della crisi, delle banche, della siccità e della meccanizzazione dell’agricoltura.
Due guerre hanno rappresentato, quindi, uno spartiacque culturale: la Grande Guerra, che ha spazzato via le influenze della cultura europea sulla letteratura americana, creando una nuova generazione di intellettuali, e la Seconda Guerra Mondiale, terminata la quale numerosi scrittori, tra i più diversi, contribuirono a rappresentare nei loro romanzi le tensioni e le contraddizioni della complessa e variegata società americana.
SAVE THE DATE

L’incontro Dalla Lost Generation alla Beat Generation si terrà
mercoledì 2 aprile 2025 alle ore 17:00 
in ALDAI, in Sala Viscontea Sergio Zeme
Per partecipare è necessaria la registrazione su www.aldai.it


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