Quale futuro di sviluppo per l’Italia?

L’Italia si trova a un bivio del suo futuro economico, industriale e sociale. È necessario guardare oltre il contingente e immaginare che paese vogliamo consegnare ai nostri figli facendo ora quelle scelte strategiche di sviluppo sostenibile che ci garantirà successo e benessere diffuso.

Pasquale Ceruzzi

Socio ALDAI-Federmanager - pacer263@gmail.com 
Ci fu un periodo (dal 1980 al 2015) in cui la globalizzazione e il multilateralismo soffiava forte e diretto nelle vele della barca “Italia” e sembrò una conseguenza naturale, per una parte dell’imprenditoria italiana, trasferire la produzione di manufatti in Paesi dove il costo per ora lavorata era un decimo o un ventesimo del nostro. Un’idea innovativa che poteva trasformarsi in un prodotto vincente o in un servizio irrinunciabile spesso non veniva perseguita se presentava costi di sviluppo elevati e incertezza di un adeguato ritorno economico a breve. Queste scelte permisero di tenere bassi i costi di sviluppo o produzione e alti i margini (utili) di bilancio delle imprese insieme alla finalità sociale di distribuire lavoro e reddito nei Paesi meno sviluppati. Le conseguenze negative di queste scelte quali perdite locali di produzioni, reddito e capacità di progettare il domani sono state per lungo tempo considerate di minor importanza.
Dal 2015 si comincia a immaginare ed attuare un processo inverso di rimpatrio delle produzioni (reshoring) al fine di creare opportunità lavorative, reddito e sviluppo direttamente in loco allineandosi a quanto proposto e in parte fatto dagli Stati Uniti. Ma questo processo, tutt’altro che facile, va forse accompagnato con dazi e restrizioni commerciali che però possono attivare misure uguali e contrarie che rendono arduo il raggiungimento dei risultati auspicati. Per l'Italia, che è un Paese nettamente esportatore, può essere critica una politica di reshoring se accompagnata da dazi verso taluni Paesi, perché metterebbe a rischio l’avanzo significativo della nostra bilancia dei pagamenti con l’estero e della nostra vocazione all’esportazione.

Fatta questa premessa non possiamo non registrare, a partire dagli anni ’70, una fase di decadenza economica del nostro Paese che può essere imputata prevalentemente ai seguenti principali fattori (alcuni e non tutti):
  1. Perdita di competitività e produttività delle imprese italiane
  2. Proliferazione di piccole e medie imprese e scomparsa delle grandi 
  3. Eccesso di debito pubblico e spesa corrente improduttiva
  4. Crescita demografica negativa
  5. Scolarizzazione e qualità del capitale umano in peggioramento (competenze insufficienti)
Per migliorare la situazione industriale, economica e sociale del nostro Paese dobbiamo partire da una domanda dalla quale poi tutto il resto ne consegue. La domanda esistenziale è la seguente:
Che cosa vuole essere l’Italia da un punto di vista industriale, economico e sociale tra 10 – 15 anni?
Le plausibili risposte potrebbero essere le seguenti:
  1. Una nazione che prospera su servizi legati al turismo, all’arte, al paesaggio, ai siti archelogici, alla musica e spettacolo, al cibo (da notare, incidentalmente, i servizi più colpiti dall’attuale pandemia di Covid)
  2. Una nazione che prospera sull’industria dell’abbigliamento e della moda, sui mobili e l'arredamento, sull’automotive, sull’acciaio, sulla produzione di energia, sulla meccanica di precisione, sulla meccanica pesante, sulle telecomunicazioni e sull’IT (HW & SW), sulla costruzione di treni, su aerei e mezzi di trasporto in genere, su armi, chimica, risparmio ecc …
  3. Una nazione che prospera su un equilibrato mix di servizi e industria elencati ai punti 1) e 2)

Scartiamo l’ipotesi che noi vorremmo essere la somma algebrica 1) e 2) perché questo è esattamente quello che velleitariamente o inconsapevolmente facciamo proprio ora con risultati brillanti in qualche caso e deludenti per altri. Dalla scelta di quello che vorremmo essere ne consegue quello che dobbiamo fare per poter essere. Allo stato attuale i nostri governanti e politici (di ogni estrazione) sono impegnati in obiettivi di breve legati alle prossime elezioni. Quindi di pianificare il futuro con un minimo di lungimiranza non se ne vede proprio traccia 

Mettiamo però, per ipotesi, che domani mattina uno di loro si svegli e con autorità e visione ci dica che la miglior soluzione per il nostro Paese sia il punto 3), individuando uno per uno servizi e industrie che prioritariamente vogliamo definire di "punta e strategici" per il nostro Paese. Saremmo, se ciò avvenisse, già a buon punto (e ce ne dovremmo rallegrare) in quanto ci permetterebbe di affrontare un’altra domanda chiave:
Con quale Capitale (inteso non solo finanziario ma anche produttivo) e Lavoro (intesa come forza lavoro) possiamo realizzare l’obiettivo strategico della nostra nazione?
Se crediamo nell’economia di mercato per il Capitale dovremmo pensare all’iniziativa privata e imprenditoriale, partendo preferenzialmente da imprenditori italiani. Ma a questo punto sorge un’altra domanda chiave:
Quali sarebbero gli imprenditori italiani che vogliamo alla testa di questo paese sulla via del rinnovamento?
Imprenditori come Del Vecchio, Garavoglia, Bombassei, ecc … o imprenditori che si sono infilati negli ex monopoli dello stato dalle strade, alle ferrovie e alle telecomunicazioni, conseguendo risultati opinabili? Vogliamo degli imprenditori che dichiarino con trasparenza le tasse che pagano, preferibilmente in Italia, o imprenditori che trasferiscono la corporate o la sede legale in Paesi a fiscalità di favore? O magari ripeschiamo quelli che hanno nel recente passato venduto l’olio di oliva agli spagnoli, la grande distribuzione ai francesi e tedeschi, la moda ai cinesi, parte dell’industria dolciaria agli olandesi dell’Unilever? Ma magari siamo più sofisticati e preferiamo coloro che hanno utilizzato frequentemente gli ammortizzatori sociali nei periodi di crisi e incamerato pienamente gli utili nei periodi espansivi. Sgombriamo il campo dagli equivoci precisando che propendiamo per un’economia di mercato ma esigiamo, da italiani, che il criterio di gestione sia sempre improntato a efficienza, integrità e competitività. 
La risposta a questa domanda è implicita e allo stesso tempo facile. Tuttavia da soli probabilmente non ce la faremmo e pertanto dovremmo essere aperti ai capitali provenienti dall’estero.  Molto meglio se questi capitali provenissero dall’Unione Europea e da Paesi con alle spalle una provata reputazione democratica.
E lo Stato deve avere un ruolo imprenditoriale e su quali partite?
Il ruolo dello Stato deve essere quello di “controllo e direzione strategica” di taluni monopoli quali infrastrutture di comunicazioni e reti, lasciando la gestione ai privati. Poi dovrà occuparsi meglio, molto meglio di istruzione, ricerca scientifica, giustizia, difesa e pubblica amministrazione centrale.
Fatto questo siamo alla domanda più complessa di tutte:
Con quale Lavoro (forza lavoro) intendiamo determinare i nostri obiettivi strategici?
L’Italia del 2020 non è quella del boom economico del 1950 - 1960, che risorgeva da una guerra con tanta determinazione e ricchezza di valori. L’Italia del 2020 è quella che ha ormai passato diverse crisi economiche e dopo ognuna di esse si è ritrovata con un PIL inferiore a quello pre-crisi e che non è mai riuscita a recuperare. Ad ogni passaggio di crisi perdeva un pezzo di industria che non veniva sostituito con qualcosa di altrettanto valido. Da una varietà di imprese di tutte le dimensioni siamo passati al quasi solo piccolo o al massimo medio. Nel frattempo, lo Stato si indebitava sempre di più sotto qualunque tipologia e colore politico fosse governato, alimentando prevalentemente spesa corrente improduttiva e clientelare, per arrivare a un debito pubblico di 2530 miliardi di € (158% del PIL). A causa di queste défaillance si bloccava l’ascensore sociale che permetteva ai bravi (e non ricchi) di elevare la propria classe sociale e quella dei propri figli attraverso il merito. La mentalità e la cultura della gente cambiavano in peggio, si perdevano i valori del dopoguerra, si accettava la corruzione, l’inefficienza e il debito come se questo fosse la normalità. Non si era più disposti a fare sacrifici come un tempo, si accettava l’dea che si potesse vivere agiatamente sfruttando il patrimonio già accumulato invece che incrementando il reddito, non si era più disposti a rischiare per migliorare la propria condizione, ma si pensava che questa potesse essere mantenuta cercando protezione e “comfort zone” e facendo meno figli. Morale, oltre ad un debito statale di tali dimensioni ci ritroviamo con un Paese a crescita demografica negativa, una popolazione con una età media tra le più alte del mondo (45,7 anni) e un’aspettativa di vita di 83,24 anni. Siamo pieni di ricchezza confinata in asset finanziari per circa 4.400 miliardi di € (di cui “solo” 1.500  sui conti correnti) e in unità immobiliari per 6.300 miliardi (con molte seconde e terze case invendute…). La nostra forza lavoro è costituita da giovani che non trovano lavoro (disoccupazione giovanile oltre il 30%) forse perché il lavoro offerto è di pessima qualità o forse perché le aspettative dei nostri giovani sono eccessive rispetto a quanto loro offerto (o probabilmente entrambe le cose!). Ma allo stesso tempo ci sono anche criticità a impiegare forza lavoro proveniente dai paesi extra comunitari. Chi la impiega dice di non farlo o la occupa in nero o la sottopaga. Ritengo necessario che il Paese, nel suo insieme, si debba porre seriamente questa domanda e dare una risposta onesta e utile perché senza questa siamo a quello che gli anglosassoni definiscono “deadlock" (punto morto).
Quindi, nel rimpatriare produzioni dovremmo fare attenzione agli aspetti organizzativi e alla quantità e qualità della forza lavoro (attraverso un percorso formativo ad hoc). Nella selezione del Paese che vogliamo tra 10 o 15 anni avremo sicuramente eliminato quelle produzioni che non ci riservano margini. Dovremo quindi puntare su una produzione di qualità che si differenzia dal prodotto di massa, spesso a scarso valore aggiunto, e specchio del nostro know-how più esclusivo in quanto ci permetterebbe di impiegare personale qualificato che giustifica anche un costo più alto (se confrontato con Sud Est Asiatico, l’Europa Orientale e il Nord Africa).
In conclusione, l’Italia la poniamo veramente al primo posto se rispondiamo alle domande sopra esposte con iniziative improntate alla competenza, all’efficienza, alla qualità di prodotti e servizi e alla meritocrazia anteponendo l’interesse di tutto il paese agli interessi di singole fazioni.
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