Sostenibilità nella supply chain: sfide e opportunità

Sara Cattaneo

 Global Head of Supply Chain Management - Socia ALDAI-Federmanager e componente del Comitato di Redazione Dirigenti Industria
Iniziamo innanzitutto col definire cos’è una supply chain sostenibile.
Un’azienda può definire la propria supply chain sostenibile quando questa fornisce prodotti e servizi che rispondano ai fabbisogni dell’azienda stessa riuscendo altresì a contenere il più possibile l’impatto ambientale (economia circolare, emissioni CO2, ecc.) e a operare in modo conforme alle responsabilità sociali (human rights, ecc).

Vorrei focalizzarmi in questo articolo soprattutto sull’area legata alle emissioni di CO2 (di cui tanto si parla in questo periodo). Facciamo un breve punto della situazione sul contesto in cui ci troviamo: quando parliamo di attività aziendali volte alla riduzione di emissioni di CO2, ci stiamo implicitamente riferendo a quelli che vengono definiti “Scopi”.

SCOPO 1: legato alle emissioni “dirette”, ovvero prodotte direttamente dai siti aziendali; 

SCOPO 2: legato alle emissioni indirette generate dall’utilizzo di energia; 

e infine lo 

SCOPO 3: legato alle emissioni indirette provenienti da asset non di proprietà dell’azienda stessa, ovvero da prodotti installati presso i propri clienti e/o soprattutto dalla catena di fornitura.

Ecco, quindi, che la supply chain entra in gioco come uno dei principali contribuenti, a volte addirittura come IL principale, nella battaglia contro le emissioni.

Alcuni studi dicono infatti che nella maggior parte dei settori industriali in ambito manifatturiero, la supply chain genera fino al 60% delle emissioni globali dell’azienda (questo ovviamente non vale per tutte le imprese: basti pensare all’automotive, che invece vede la maggior parte delle emissioni relative al cosiddetto Scopo 3, legate all’utilizzo del prodotto finale).

Considerando che il focus sulla sostenibilità sta aumentando sempre più tra le aziende (per esempio, riferendosi alle cosiddette 2.000 top companies al mondo, pare che ben il 34% abbia stabilito un proprio target di net-zero, ovvero si sia impegnato a neutralizzare le emissioni dei propri siti produttivi entro il 2040, e le più avanzate addirittura entro il 2030) e che, come abbiamo appena citato, il peso della catena di fornitura sia particolarmente importante per la transizione sostenibile, va da sé che l’attenzione sul cosiddetto Scopo 3 sia in costante aumento.

La sfida (e l’importanza) della raccolta dei dati

A questo punto si potrebbe pensare che il primo passo da fare sia proprio quello di buttarsi a capofitto sullo sviluppo di un piano d’azione volto alla riduzione delle emissioni di CO2.

Sicuramente questa è un’azione necessaria, da iniziare il prima possibile, MA prima di quello step, o quantomeno in parallelo, sarebbe bene chiedersi: “Noi vogliamo ridurre le nostre emissioni di un X% … rispetto a quale valore di partenza? Sappiamo davvero quali sono oggi le emissioni provenienti dalla nostra supply chain? Abbiamo visibilità su questi dati?”.

Sono certa che la maggior parte delle aziende, soprattutto le 
piccole-medie imprese, risponderebbe “NO”. E per quanto la presa di coscienza di questo gap sia un passo importante, purtroppo capire come affrontare il tema resta un argomento di non facile soluzione, influenzato da alcune dinamiche ben specifiche.
Livelli di sub-fornitura
Da alcune analisi emerge che mediamente oltre il 60% delle emissioni relative al famoso Scopo 3 della supply chain non derivi dal primo livello di fornitura (forniture dirette), ma provenga dai cosiddetti sub-fornitori (ovviamente questo dato varia sensibilmente a seconda del prodotto e del segmento industriale a cui ci riferiamo). In alcuni settori specifici, come quello aerospaziale, l’automotive o l’high-tech, si sale addirittura all’80%. Questo vuol dire che per avere dei dati significativi bisognerebbe spingersi con le proprie analisi molto a fondo all’interno dell’intera value chain, impresa tutt’altro che facile

Disposizione geografica della supply chain.
Un altro fattore che influenza notevolmente la difficoltà di reperire i dati relativi alle emissioni di CO2 legate alla supply chain è la disposizione geografica della supply base stessa. Quelle aziende infatti che, per esempio, sono localizzate in Cina o India, o più in generale nei cosiddetti emerging market, hanno solitamente una supply chain più localizzata, da cui possiamo evincere che la maggior parte delle emissioni avverrà all’interno della nazione stessa. D’altra parte, le aziende che producono in altre nazioni, tra cui per esempio l’UE, solitamente hanno una supply base più complessa e diramata, in cui si trovano molto spesso a importare molto dal Far East o da mercati a costi inferiori, trovandosi quindi con un carbon foot print delle proprie emissioni molto più complesso e frazionato tra tante nazioni. Questo può comportare una maggiore difficoltà di raccolta dei dati, sia per la molteplicità di interlocutori e casistiche, sia per la varietà di maturità nell’approccio agli standard che le varie nazioni potrebbero presentare tra loro.
Livello di maturità dei propri fornitori.
All’interno della propria supply base il livello di maturità e readiness verso i vari temi della sostenibilità non è lo stesso per tutti i fornitori.
Mi aspetto quindi che probabilmente le aziende multinazionali da cui ci forniamo possano essere più “mature” sull’argomento e pronte a fornire qualche dato significativo, mentre le piccole-medie imprese possano essere più in difficoltà e ancora bisognose di supporto e di linee guida.

Unendo tutti gli aspetti sopraccitati, si delinea quindi un quadro non semplice, da cui emerge chiara l’importanza di:
  1. aumentare l’analisi e la comprensione dei dati relativi all’intera value chain;
  2. in parallelo, bisogna iniziare a inserire i requisiti relativi alla trasparenza dei dati e ai target di sostenibilità già nella fase di selezione di nuovi fornitori;
  3. costruire un sistema digitale di raccolta e anche monitoraggio dei dati;
  4. supportare i fornitori nel delineare una direzione da intraprendere;
  5. lavorare gomito a gomito in un vero rapporto di partnership con clienti e fornitori con l’obiettivo comune di sviluppare soluzioni sostenibili.

 L’impatto sui costi

Fino ad ora forse l’accento principale è stato posto sui benefici, più che sui costi, che derivano da un approccio sostenibile, cosa più che giusta visto che il principale motore di questo cambiamento è proprio il sogno, anzi l’obiettivo, di avere una società e un ambiente con meno emissioni di CO2.

La complessità dell’argomento legato alla reperibilità e alla raccolta dei dati di cui abbiamo fin qui parlato probabilmente, in realtà, non ci consente di avere un quadro già perfettamente limpido relativo all’eventuale impatto dei costi derivante dalla transizione sostenibile della supply chain.

Infine, è altresì vero che tante tecniche e approcci relativi a processi produttivi più sostenibili sono essi stessi ancora in evoluzione.


Per esempio, qualche settimana fa ho visitato una fonderia particolarmente all’avanguardia su argomenti di sostenibilità, che per la natura stessa del processo manifatturiero del proprio prodotto è altamente impattata dalle tematiche di sviluppo sostenibile. Lì ho imparato che il primo passo su cui stanno investendo è rappresentato dalla transizione al cosiddetto forno ad arco elettrico, ma questo non è di certo il solo né l’ultimo step che si aspettano in questo percorso.
Mi hanno parlato per esempio anche di un’ulteriore evoluzione, che prenderà sempre più piede, relativa alla tipologia di materiale da usare come input per il processo di fusione, che passerà da materiale di scarto da fondere a materiale parzialmente già decarbonizzato: si tratterà quindi di un materiale più “nobile”, ma anche più costoso.
D’altra parte, nel settore plastico, le stime preliminari di aumento costi relative ad alcuni materiali (pervenute circa un anno fa) sembrano in fase di miglioramento grazie alle continue scoperte e a nuovi approcci.

Tutto ciò ci porta quindi a dire che la possibile stima di impatto sui costi sarà in continua evoluzione, legata all’introduzione di nuove tecniche e materiali, e quindi andrà continuamente aggiornata.
Riassumendo però, possiamo considerare che il processo di transizione sostenibile porti mediamente a una tendenza verso l’aumento dei costi d’acquisto dei materiali. Nonostante questo, la sostenibilità dei nostri prodotti non è un aspetto su cui possiamo scendere a compromessi.

Quindi credo che ci siano tre principali riflessioni da fare:

  1. Le aziende dovrebbero considerare quest’occasione come un’opportunità per rivalutare il contenuto di materie prime nei propri prodotti, e investire sulla Ricerca&Sviluppo per ottimizzarlo ulteriormente. Quest’attività potrebbe naturalmente aiutare a bilanciare quell’aumento dei costi che ci attendiamo dall’altro lato.
  2. Dovremmo altresì interrogarci sui costi della non sostenibilità: se da un lato infatti parliamo di incentivi e investimenti legati alla transizione sostenibile, dall’altro ci saranno presto sanzioni e penali legate al mancato rispetto delle norme, o costi più alti legati allo smaltimento di materiali non sostenibili, per non citare poi la potenziale perdita delle quote di mercato nel caso in cui non si soddisfino i criteri di sostenibilità.
  3. L’ultima considerazione da fare è più legata a un concetto di partnership, sia con i clienti che con i fornitori, in cui ogni azienda dovrebbe investire tempo e risorse atte al raggiungimento di obiettivi comuni, questo anche a voler rappresentare il fatto che la sostenibilità non debba essere un semplice costo da ribaltare sul cliente finale, ma il risultato di uno sforzo collettivo teso in primis al miglioramento dell’ambiente in cui viviamo, e implicitamente a una visione comune che non comporti interpretazioni difformi delle norme, né spreco di tempo e risorse per lo sviluppo di soluzioni “in silos”. 
Vorrei infine sottolineare che, al di là dell’analisi dei dati, delle stime dei costi, degli investimenti di carattere digitale, e più in generale degli sforzi di cui abbiamo fin qui parlato per supportare lo sviluppo sostenibile, credo sia importante che tutti ci rendiamo conto che per guidare con successo questo cambiamento dobbiamo essere innanzitutto aperti a un vero e proprio cambiamento di mindset. La transizione sostenibile richiede anche, e forse soprattutto, un cambiamento culturale.

Dobbiamo quindi tutti insieme iniziare a non considerare la trasformazione sostenibile come un onere, ma come un vero e proprio investimento sul futuro.


Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.