Il futuro del lavoro nella società digitale

Il convegno SDA Bocconi dello scorso 14 febbraio ha proposto i risultati dell’indagine, realizzata in collaborazione con dirigenti, direttori del personale, studiosi e giovani laureandi, le cui riflessioni sono contenute nel libro “Lavoreremo ancora?”. Nella tavola rotonda è quindi seguito un responsabile dibattito sul futuro: il luogo dove vivremo e vivranno le prossime generazioni.

 

Giovanni Caraffini 

Consigliere ALDAI

Se le macchine diventano più intelligenti e cominciano a fare il nostro lavoro… noi cosa faremo?

Questo ansiogeno interrogativo serpeggia da tempo nei discorsi degli operatori economici, e anche fra la gente della strada, in Italia così come in tutto il mondo.
Molto opportuna è stata quindi l’iniziativa della SDA Bocconi di indire un convegno su questo tema, in collaborazione con AICA (Associazione Italiana per l’Informatica), AIDP (Associazione Italiana Direttori del Personale) e Federmanager. Il convegno, che si è svolto lo scorso 14 febbraio, è stato anche l’occasione per presentare il libro “Lavoreremo ancora?” scritto a quattro mani proprio su questo tema dai professori Alfredo Biffi e Pier Franco Camussone. Cliccare il titolo per la recensione Dirigenti Industria.
Una cosa sicuramente importante da verificare, così ha esordito il prof. Biffi, è la percezione che di questo problema hanno in Italia i principali stakeholder. A questo fine è stata svolta una ricerca che ha coinvolto 14 esperti (opinion leader, accademici e studiosi), 357 manager, 62 startupper e 300 laureandi/neolaureati di 15 università italiane.
A tutti costoro è stato chiesto quali effetti pensano che avrà sul mondo del lavoro l’adozione delle più recenti tecnologie innovative di tipo digitale che si stanno rapidamente diffondendo nel mondo produttivo. I risultati hanno sostanzialmente dimostrato una buona consapevolezza del problema, in particolare sui seguenti importanti punti:
  • Circa le attività aziendali che subiranno i maggiori cambiamenti lavorativi, la grande maggioranza degli interpellati (l’87% del totale e l’84% dei manager) ha indicato le attività di fabbrica; una percentuale ancora maggiore (il 92% del totale e l’88% dei manager) le attività di ufficio; e circa la metà (precisamente il 51% del totale e il 54% dei manager) ha indicato anche le attività di alto livello.
  • Rispetto agli effetti sulla qualità della vita, solo il 46% degli interpellati pensa che il processo di diffusione dell’innovazione digitale aumenterà la qualità della vita; e comunque ritiene che il miglioramento avverrà in modo diverso per chi gestirà la tecnologia rispetto a chi la userà.
  • Riguardo infine all’evoluzione degli skill richiesti, il 61% degli interpellati (e il 58% dei manager) ritiene che le competenze lavorative saranno soggette a rapida obsolescenza.
Significativa anche la tempistica indicata nella ricerca: secondo il 55% degli interpellati (ma secondo il 69% dei manager), il grosso del cambiamento occupazionale si completerà in meno di 10 anni. Se questo è vero, ha osservato il prof. Biffi, ci rimangono solo 5-10 anni per impostare e gestire un modello economico, sociale e culturale alternativo o integrativo a quello attuale, in grado tra l’altro di garantire alla popolazione un sufficiente livello occupazionale.

Che caratteristiche dovrebbe avere il nuovo modello lavorativo ?

Intanto bisogna ricordare che lungo la sua storia l’uomo, mettendo a frutto la propria intelligenza, è sempre riuscito delegare alle macchine i lavori più gravosi, trovando poi sempre il modo di occuparsi di attività più interessanti e atte a soddisfare nuovi bisogni. Su questa falsariga ci sarebbe da aspettarsi anche per il prossimo futuro uno scenario lavorativo caratterizzato da:
  • nuova occupazione generata dalle nuove tecnologi e dai servizi indotti,
  • incentivazione del lavoro manuale nei settori a bassa impiegabilità di ICT,
  • creazione di nuovi ambiti di sviluppo con relativo aumento delle possibilità di lavoro,
  • recupero di ambiti economici oggi piuttosto marginali (per esempio Arti e Mestieri).
A conclusione del suo intervento, il prof. Biffi ha ricordato che, al di là degli aspetti più tecnici affrontati nella ricerca, la problematica in discussione evoca necessariamente anche domande esistenziali, come ad esempio:
  • Di cosa vivremo… e saremo più felici quando il lavoro non sarà più un elemento cardine della quotidianità?
  • Se ci «manterranno» le macchine, perché preoccuparsi dell’invecchiamento e della diminuzione dei giovani?
  • Riusciremo a mettere in piedi in tempo utile un sistema formativo calibrato sulle nuove sfide?
Proprio per aiutare a dare risposta a domande di questo tipo, il prof. Camussone ha inquadrato l’argomento in discussione da un punto di vista più ampio. Ha dapprima ripercorso molto sinteticamente le tappe dell’enorme progresso tecnologico che, a partire dagli anni ’60, ha portato dapprima l’informatica e le telecomunicazioni a convergere su internet, poi ha visto svilupparsi impetuosamente la robotica e l’automazione industriale, ed ora sta aprendo nuove prospettive all’impiego pratico dell’intelligenza artificiale. Quest’ultima branca è forse oggi ancora poco percepito dal grande pubblico, ma si tenga presente che solo nel 2015 sono stati investiti nel settore 55 miliardi di dollari da parte di colossi come Toyota (auto intelligente), Google (apprendimento profondo), IBM (linguaggio naturale), Apple (comprensione delle emozioni), General Electric (software per elettrodomestici).
Il prof. Camussone ha poi osservato che in passato il dispiegamento di nuove tecnologie ha sempre avuto due effetti “positivi” concomitanti: oltre ad aver creato ex-novo comparti industriali prima non esistenti, esse hanno anche, grazie alla loro tipica pervasività, conferito efficienza agli altri settori economici, aumentandone grandemente la produttività. A questo punto ha ricordato che la produttività del lavoro, cioè la ricchezza mediamente prodotta da ciascun occupato, dipende essenzialmente dall’interazione di quattro fattori: 
  • gli investimenti nel ?capitale fisico? (impianti, edifici, ecc.), 
  • il miglioramento delle competenze delle risorse umane, 
  • le innovazioni tecnologiche
  • le nuove forme di organizzazione del lavoro
Naturalmente la domanda chiave è: il miglioramento della produttività del lavoro può essere ottenuto senza che l’occupazione totale cali?
Per quanto riguarda il recente passato, sembrerebbe di sì, se si osserva la tabella della produttività e del tasso di disoccupazione dei principali Paesi.
Ma per il futuro non è detto che le cose andranno ancora così. Gli economisti non sono concordi: alcuni continuano a ritenere validi i paradigmi dell’economia classica, altri osservano che troppe sono ormai le “anomalie”: il costo decrescente degli investimenti tecnologici, l’alternativa tra investimenti fissi e risorse umane, il costo marginale, le economie di scala, la trasparenza dei mercati (ed i comportamenti opportunistici), il valore delle idee e delle risorse fisiche. Ci sono esempi impressionanti: Uber non possiede nemmeno un’auto ma capitalizza 60 miliardi di dollari, mentre Hertz che ne possiede più di centomila capitalizza solo 4,5 miliardi; Airbnb non possiede nemmeno un albergo ma capitalizza 25 miliardi, mentre Hilton ne possiede 4.500 ma vale 17 miliardi; Amazon non possiede punti vendita, ma capitalizza 278 miliardi, mentre Walmart con 10.000 supermercati ne vale 208.
Non meno pregnanti gli interrogativi che si pongono i sociologi: il lavoro non sarà più il pilastro della società civile? Sarà possibile non lavorare? Sarà possibile non diminuire i consumi? E assicurare il welfare a tutti? E non accumulare tutta la ricchezza nelle mani di pochi? E di lavoro non delegabile ai robot (decisioni poco strutturabili, creazione artistica e culturale, no-profit) ce ne sarà per tutti?
Anche le proiezioni occupazionali effettuate da enti qualificati sono abbastanza divergenti. Due esempi: secondo l’US Bureau of Labor Statistics, dal 2014 al 2024 negli Stati Uniti si perderà il 17,8% dei posti di lavoro, ma se ne creerà il 24,2% di nuovi, dunque con un saldo positivo del 6,4%; mentre il World Economic Forum 2016 ha previsto che dal 2015 al 2020 nei 15 maggiori paesi del mondo (esclusa la Cina) si perderà lo 0,6% dei posti di lavoro e se ne creerà solo lo 0,2%, dunque con un saldo negativo dello 0,4%.
Quello che sembra certo è che governare in modo positivo questo cambiamento non sarà possibile senza un forte impegno da parte di tutti: delle aziende, che dovranno innovare per svilupparsi; dei governi, che dovranno adottare modelli nuovi (sistema fiscale, ruolo dello stato, sistema educativo); e infine dei cittadini, che dovranno cambiare mentalità, percorsi di studio e stili di vita.

Tavola rotonda: Come sarà il lavoro nella società digitale? Esperienze e prospettive.

Alla presentazione dei risultati della ricerca e del libro “Lavoreremo ancora?” edito da EGEA-Università Bocconi, è seguito un dibattito moderato dal giornalista del Corriere della Sera Dario Di Vico, che ha aperto i lavori dando la parola a Roberto Battaglia, Head of HR Corporate & Investment di Intesa San Paolo.
Battaglia si è detto sorpreso per la poca preoccupazione mostrata soprattutto da chi il lavoro non ce l’ha: i giovani, gli studenti e anche gli “startupper”. Ed anche le aziende non sembrano in genere preoccupate di ripensare proattivamente i loro modelli di business, mettendo in campo quelle forti dosi di pensiero strategico e capacità critica che sono richieste per innescare “l’agitazione” necessaria a sostenere il cambiamento e valorizzando quegli asset intangibili, come l’intelligenza, che spesso le aziende non sanno neppure di avere. Esempi come quelli di Uber e di General Electric, peraltro, mostrano chiaramente che è quasi sempre necessario modificare radicalmente l’organizzazione del lavoro.

Roberto Bellini di AICA ha sottolineato il ruolo determinante dell’apprendimento per fronteggiare con successo le sfide della trasformazione digitale. Affinché le tecnologie abilitanti possano effettivamente accrescere il valore dell’impresa, infatti, sono essenziali nuove competenze digitali, come saper scegliere le innovazioni strategiche per l’impresa, saper favorire la condivisione delle competenze innovative all’interno dell’impresa attraverso l’apprendimento permanente, saper misurare il livello delle competenze per distribuire le responsabilità all’interno dell’organizzazione; ed infine saper certificare le competenze per una selezione basata sul merito.

È quindi intervenuto Giovanni Cassataro, direttore del personale della ‘Mazzucchelli 1849’, un’azienda che produce lastre in acetato di cellulosa per il settore dell’occhialeria (2.500 tons.  l’anno). “Nel settore della moda è indispensabile ricercare ed  innovare continuamente: noi sviluppiamo ad esempio duemila colori nuovi l’anno. Per questo per noi è fondamentale percepire i segnali deboli e gestire il cambiamento richiesto dalle nuove tecnologie agendo sui processi e sulle risorse umane”, ha commentato Cassataro, che ha aggiunto: “Nel nostro settore vi è una forte integrazione con i clienti , con i quali abbiamo sviluppato sistemi gestionali di programmazione della produzione che ovviamente vanno ad impattare sull’intera filiera produttiva. Oggi bisogna avere la giusta consapevolezza del cambiamento e delle trasformazioni in corso, senza eccessive preoccupazioni ma anche con la determinazione che non si può bloccare l’evoluzione e l’innovazione che rappresentano comunque un’opportunità di sviluppo e di business. Si deve agire sulle persone aiutandole ad affrontare il cambiamento e sviluppando le loro competenze che devono quindi essere allineate al mutato contesto tecnologico.

Franco Del Vecchio, segretario CIDA Lombardia e coordinatore del Gruppo Progetto Innovazione dell’associazione dirigenti ALDAI-Federmanager, ritiene l’argomento del convegno molto importante perché sugli atteggiamenti e sulle scelte di oggi ci giochiamo il futuro di secondo Paese manifatturiero europeo. Scelte così importanti che non possono essere operate da pochi. Si deve perciò creare un contesto generale favorevole, in cui le persone possano esprimere le proprie passioni e il proprio talento. Del Vecchio è stato il primo direttore marketing Apple negli anni ’80 per passare poi in Olivetti, ed ha vissuto di persona le grandi trasformazioni organizzative del mondo del lavoro. Ha ricordato che quando agli inizi degli anni ’80 chiese a Steve Jobs un computer a basso costo per fare la contabilità delle piccole imprese, Steve rispose “No, Franco, non hai capito: noi non siamo qui per fare computer a basso costo; noi vogliamo soddisfare i bisogni che le persone ancora non conoscono, per cambiare il mondo".
La storia insegna che tutte le volte che c’è stata innovazione si sono liberate risorse per soddisfare bisogni inespressi. E sebbene sia nella natura umana resistere al cambiamento, e le “Cassandre” di turno ne sono l’espressione, è certo che senza innovazione si perde competitività e si è destinati al declino. Grande è quindi la responsabilità degli opinion leader quando diffondono “timori” piuttosto che passione ardente per il futuro. Un futuro nel quale il modo stesso di concepire il lavoro perderà gran parte del significato attuale, per la crescente importanza del concetto di occupazione collegata alle realizzazione personale e alla generazione di valore per sé, per la propria famiglia e per la società. 
L’indagine sull’impatto della trasformazione digitale sul lavoro ha messo in evidenza che sono sempre più richieste nuove competenze manageriali: non più solo per ottimizzare i processi, ma anche per intuire le opportunità e per adattare le imprese ai nuovi contesti. Un esempio significativo può essere quello della rivista Dirigenti Industria, che da 70 anni informa i dirigenti associati. Quattro anni fa infatti fu varato un progetto per migliorare l’immagine della rivista cartacea: ci vollero due anni per ottenere risultati in termini di contenuti e di impostazione grafica. Un anno fa abbiamo deciso di aggiungere alla rivista cartacea una versione digitale in sinergia fra le associazioni Federmanager lombarde: dopo una fase di gestazione e selezione del fornitore durata nove mesi, sono bastati due mesi per realizzare un nuovo strumento di comunicazione. “Ci siamo resi conto che il digitale, oltre a ridurre i costi e i tempi di pubblicazione, offriva la possibilità di sviluppare uno strumento molto più ricco ed efficace di quello tradizionale, meglio rispondente alle aspettative degli associati, in servizio e pensionati, esistenti e potenziali, delle diverse associazioni territoriali” ha dichiarato Del Vecchio, che ha poi proseguito: “Abbiamo così realizzato una rivista digitale strutturata in due sezioni (manager in servizio e senior), per tre diversi profili (associati esistenti e potenziali, nonché lettori anonimi), per dieci diverse associazioni che possono pubblicare le proprie rubriche locali”. La tradizionale unica rivista Dirigenti Industria è così diventata, lo scorso dicembre, un sistema editoriale con 60 diverse versioni per meglio soddisfare i diversi profili di lettori: un esempio evidente delle potenzialità del digitale. Peraltro, gestire mensilmente, e a breve settimanalmente, la complessità di 60 versioni diverse della rivista in tempi dieci volte inferiori, richiede nuove capacità in termini di visione, immaginazione, creatività ed organizzazione.
Tornando alle prospettive del lavoro, sarà necessario operare scelte responsabili e cogliere tutte le opportunità offerte dal digitale per cercare di aumentare il tasso di occupazione, che in Italia è al 57,7% rispetto 66,6% della media europea e ci vede posizionati fra la Polonia al 64,3% e la Turchia al 52%, ben lontani dalla Germania al 74,3%. Non c’è bisogno di spiegare che un Paese di disoccupati, in particolare giovani e manager, corre seri rischi di collasso: è dunque urgente mettere l’occupazione al primo posto dell’agenda politica ed economica del Paese.
C’è spazio per crescere. In Italia ci sono 3,7 manager ogni 100 dipendenti rispetto ad una media europea superiore al 6% e alla Gran Bretagna al 10%. Abbiamo bisogno di più manager e persone con competenze manageriali per aumentare la competitività delle imprese.
Abbiamo un patrimonio di competenze e genio Leonardesco che il mondo ci riconosce e che offre grandi potenzialità: le tecnologie digitali e Industry 4.0 rappresentano una concreta opportunità per il rilancio del settore manifatturiero, recuperando competitività e riportando in Italia la produzione. Dobbiamo sentire il senso d’urgenza nel leggere il contesto e creare una visione per il nostro futuro, perché il futuro non accade per caso: lo dobbiamo costruire insieme “mattone su mattone”.

Vincenzo Trabace, componente della Commissione Federmanager Industry 4.0 e CEO di Lanxess S.r.l., società nata in Italia nel 2004 dallo spin-off che il gruppo Bayer ha implementato a livello mondiale concentrando le attività di commercializzazione, di produzione e di ricerca nel settore della chimica specialistica e della gomma sintetica. Lanxess Italia è un'azienda che produce e commercializza prodotti chimici e intermedi per l’agricoltura, per il settore farmaceutico e per l’industria in diversi settori merceologici ( automotive, water treatment, cosmetic, fashion, construction, ecc.) ed opera sul territorio nazionale con due siti produttivi, due filiali / laboratori e assistenza al cliente ed una sede amministrativa / commerciale.
Trabace ha commentato: “Mentre noi siamo qui a condividere riflessioni sui risultati della ricerca sull’impatto del digitale, il gruppo Lanxess ha avviato da diverso tempo il suo progetto industria 4.0 ed oggi alle diverse associazioni chimica ed industria tedesca, si sta già definendo gli "standard" dell’era digitale.” Ha poi proseguito: “Oltre al Piano Nazionale Industria 4.0 ed ai centri di competenza presso le Università, abbiamo bisogno di essere proattivi all’interno del nostro sistema industriale, dobbiamo essere più rapidi ..... trasferendo alle PMI e alle “family companies” le competenze, il metodo e le risorse per innovare.” 
Lo sviluppo digitale del gruppo Lanxess è iniziato con l’introduzione di sistemi ERP distribuiti nelle 56 società del gruppo presenti in 50 Paesi, è proseguito implementando processi di E-commerce e CRM, Digital Procurement per arrivare a gestire le politiche di approvvigionamento. Le competenze necessarie sono profondamente cambiate. Infatti Lanxess Italia col supporto del Politecnico di Milano / MIP e dell’Università Bocconi è riuscita ad inserire in azienda alcuni giovani talenti con solide competenze accademiche ma anche con naturale predisposizione al digitale, che hanno permesso l'implementazione di soluzioni e strumenti innovativi all'interno della "digital transformation phase ". La conseguente revisione dei ruoli ha permesso anche di ridefinire i flussi organizzativi riportando in azienda (in-sourcing), per alcune realtà organizzative, prima esternalizzate e di conseguire migliore efficacia e valore attraverso l’utilizzo di impianti automatizzati e la standardizzazione di processi. Ciò ha permesso di liberare risorse che sono state dedicate ad attività di livello superiore, di maggiore responsabilità, a valore aggiunto e focalizzate alla qualità totale ( "quality works").
È un modello di innovazione organizzativa che potrebbe essere analizzati e successivamente adottato dalle numerose PMI italiane, che possono trarre vantaggio dal Piano Nazionale Industria 4.0, dalle risorse finanziare messe a disposizione, dalle relazioni con Università ed associazioni di categoria, nonché da manager preparati e disponibili a contribuire allo sviluppo digitale dell’impresa e del nostro Paese.

Hanno concluso il convegno gli interventi di Bruno Lamborghini, vice presidente AICA e Giuseppe Soda, Dean SDA Bocconi, che hanno ulteriormente messo in evidenza il ruolo della formazione per affrontare l’era digitale.
Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.

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