Limiti alla modifica delle mansioni dirigenziali

Il Tribunale di Milano pone un importante limite

Quadro di riferimento normativo 
 Agostino D'Arco
Direttore ALDAI dal 1982 al 2005 - Consigliere ALDAI-Federmanager

Come è noto l’art. 3 del decreto legislativo 15 giugno 2015 n. 81 ha rivisto l’articolo 2103 del cod. civ. sulla disciplina delle mansioni. Mentre il vecchio testo dell’art. 2103 prevedeva che “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o per quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisita ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”, con il nuovo art. 2103 il lavoratore può essere assegnato a “mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte”. La nozione di “funzioni equivalenti” è (dal 25 maggio 2015) superata. Il datore di lavoro può, nel legittimo esercizio dello “ius variandi”, adibire il lavoratore a qualsiasi mansione, purché riconducibile allo stesso livello di categoria e di inquadramento.
Ma per i dirigenti, che il nostro contratto inquadra in una sola categoria senza alcuna suddivisione al proprio interno di livelli, la nuova normativa crea non poche difficoltà.
La sentenza del Tribunale di Milano, che di seguito riportiamo, fissa un importante limite allo ius variandi del datore di lavoro: le nuove mansioni assegnate al dirigente devono avere necessariamente un contenuto dirigenziale. Le mansioni di un dirigente possono essere modificate purché non comportino il venir meno della sua posizione dirigenziale nell’ambito della pregressa esperienza. La sentenza è disponibile su richiesta. 

                                                   

Alberto Sbarra

Studio Legale Associato Sbarra Besi
Si segnala un’interessante pronuncia del Tribunale di Milano (Trib. Milano, Sezione Lavoro, n. 1068 del 3 luglio 2019, Giudice dott.ssa Capelli), che rappresenta una delle prime interpretazioni giurisprudenziali, con riguardo ai dirigenti, della disciplina della mansioni introdotta dal cosiddetto Jobs Act con l’art. 3 D.Lgs. n. 81 del 2015, che ha profondamente modificato le condizioni alle quali il datore di lavoro può modificare le mansioni dei propri dipendenti (il cosiddetto ius variandi), riscrivendo di fatto l’art. 2103 cod. civ.
Detto articolo stabilisce oggi che il datore di lavoro può assegnare al dipendente mansioni anche non equivalenti alle precedenti, purché riconducibili alla stessa categoria legale, nonché allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.
In sostanza, se fino al Jobs Act, il datore di lavoro poteva affidare ai dipendenti soltanto compiti “equivalenti” a quelli precedentemente svolti, garantendo lo stesso livello di professionalità, ora ha il potere  di modificare le mansioni avendo come unico limite che siano riconducibili alla medesima categoria (dirigente, quadro, impiegato, operaio) ed allo stesso livello di inquadramento di fonte contrattuale collettiva. In altri termini mentre in passato si aveva riguardo al mantenimento della stessa professionalità nel tempo acquisita, con la riforma in esame si può prescindere da tale patrimonio personale con l’affidamento anche di mansioni molto diverse e fungibili tra loro.
Siccome per i dirigenti i contratti collettivi non prevedono, come noto, diversi livelli di inquadramento, in questo caso lo spazio di manovra del datore di lavoro sembrerebbe essere potenzialmente molto ampio.
Si pone, dunque, la seguente questione: qual è il limite che l’azienda incontra nel modificare le mansioni di un dirigente? Il cambio di mansioni è più facile per i dirigenti, perché senza livelli contrattuali come gli altri settori?

A tali interrogativi fornisce una prima risposta la sentenza del Tribunale di Milano in commento.
Chiamato a pronunciarsi in una controversia promossa da un dirigente bancario che, dopo aver ricoperto ruoli di cosiddetta dirigenza “apicale”, era stato adibito a compiti dirigenziali diversi ritenuti, però, inferiori rispetto alla professionalità in precedenza acquisita; lamentava, quindi, il proprio demansionamento, con conseguente richiesta di riassegnazione delle attività precedentemente svolte ed il risarcimento dei danni subiti.
Il Tribunale adito, dopo aver ripercorso la disciplina dell’art. 2103 cod. civ. sino alle modifiche apportate dal Jobs Act, ha innanzitutto osservato che nel caso dei dirigenti – ove non è appunto prevista differenziazione di inquadramento – il limite allo ius variandi resta quello della categoria, arrivando ad affermare che le nuove mansioni assegnate al dirigente debbono avere necessariamente un “contenuto dirigenziale”, con ciò intendendosi la salvaguardia del patrimonio  di conoscenze e professionalità in precedenza maturate.
Seppur apparentemente ovvia questa conseguenza, in realtà, è  una precisazione di non poco rilievo e perfettamente coerente  con il dettato del nuovo art. 2103 cod. civ.: il cambio di mansioni per   i  dirigenti,  sebbene senza livelli di inquadramento, deve  attenersi  a tale limite insuperabile, ossia il recupero e valorizzazione, in sostanza, del pregresso patrimonio professionale.
Per determinare poi se le nuove mansioni assegnate abbiano un “contenuto dirigenziale”, pare utile il rinvio ai criteri elaborati in questi anni dalla giurisprudenza per inquadrare la figura professionale del dirigente, caratterizzata, come noto, dall'autonomia e dalla discrezionalità delle decisioni, nonché dall’ampiezza delle funzioni, tali da influire sulla conduzione dell’intera azienda o di un suo ramo autonomo.
In sostanza, occorre aver riguardo ad una valutazione effettiva, caso per caso, della rilevanza riconosciuta ad una determinata posizione all’interno dell’azienda, tenendo essenzialmente conto della posizione gerarchica aziendale assicurata dalle mansioni stesse; della qualificazione professionale che le stesse comportano; dei poteri e responsabilità complessive che dalle stesse discendono.
La sentenza in commento ha, al riguardo, precisato che, al fine di vagliare la configurabilità o meno di un  illegittimo demansionamento, è necessario fare riferimento a parametri differenti rispetto a quelli utilizzabili per gli altri lavoratori, quali ad esempio l’importanza strategica della scelta datoriale ed il rapporto fiduciario, particolarmente intenso, che lega datore e prestatore di lavoro.
In definitiva, è necessario verificare l’effettività del carattere dirigenziale dell’attività affidata, appurando che il dirigente, pur assegnato ad una diversa attività, mantenga il proprio ruolo dirigenziale, caratterizzato da autonomia e potere decisionale e, comunque, mantenga pari responsabilità secondo l’esperienza maturata.
Su tali presupposti, il Tribunale di Milano ha verificato la natura dei compiti che il dirigente aveva svolto dopo il cambio di  mansioni  ed ha accolto il ricorso, in quanto all’esito dell’istruttoria espletata era emerso che il medesimo non aveva più svolto mansioni di controllo,  era stato escluso da ogni attività avente contenuto decisionale, ed allo stesso era rimasta una sola funzione di supporto organizzativo; il Giudice ha, quindi, preso atto del carattere non dirigenziale delle nuove mansioni in relazione alla pregressa esperienza, dichiarando perciò l’esistenza di un demansionamento illegittimo.
Con la pronuncia in commento la giurisprudenza di merito fissa così un importante ed invalicabile “paletto”: il potere datoriale può spingersi a modificare le mansioni di un dirigente, purché le nuove attribuzioni non comportino il venir meno della sua posizione dirigenziale, nell’ambito della pregressa esperienza.
Ciò rappresenta una notevole differenziazione rispetto ad altre categorie dove, non esistendo più il concetto di equivalenza, il lavoratore può essere adibito a mansioni diverse che non tengano conto della professionalità in precedenza acquisita. Invece il Tribunale di Milano sembra comunque ritenere importante valorizzare la pregressa esperienza in posizioni strategiche per l’azienda che non possono venire snaturate.
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