Obbligo vaccinale Covid-19 e rapporti di lavoro
L'art. 32 della Costituzione non impedisce l’imposizione per legge di un obbligo vaccinale poiché la norma costituzionale tutela la salute non solo come diritto fondamentale del singolo, ma come interesse della collettività (in questi termini: Corte Cost. 18 gennaio 2018, n. 5)
Stefano Bartalotta
Avvocato e docente di Diritto del Lavoro nell’Università di Milano
Il fatto che, almeno allo stato, non esista una specifica previsione di legge che renda obbligatoria la vaccinazione contro il Covid-19 per la generalità dei cittadini o per particolari categorie di essi non significa che, soprattutto in contesti in cui il rischio di diffusione del contagio è più diffuso, la scelta di vaccinarsi o meno possa essere lasciata all’arbitrio del singolo.
Le diverse norme presenti nell’ordinamento a tutela della salute vanno infatti lette e interpretate alla luce del principio costituzionale sopra indicato.
L’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Le norme speciali dettate nel corso del 2020 per far fronte alla pandemia da Covid-19 impongono al datore di lavoro, proprio per adempiere al dovere di salvaguardia e prevenzione posto dalla norma generale sopra richiamata, l’adozione di specifici protocolli anticontagio (per esempio l’art. 29 bis del d.l. 23/2020).
Una volta che i vaccini anti Covid-19 siano stati validati dall’autorità competente (EMA per l’Europa ed AIFA per l’Italia) e siano indicati dalla comunità scientifica come strumenti adeguati a contrastare la diffusione del contagio, non vi è dubbio che gli stessi possano rientrare fra le misure che “secondo l’esperienza e la tecnica” sono necessarie a tutelare la salute dei lavoratori.
Come è noto infatti, a carico del datore di lavoro, c’è un obbligo di tutela della salute ispirato al principio di massima cautela sulla base dello stato delle conoscenze scientifiche, cui può aver accesso il cittadino con la normale diligenza, pur in assenza di un espresso obbligo o di un divieto (si pensi alle sentenze di condanna per le aziende e talvolta anche per i dirigenti che hanno sottoposto lavoratori all’esposizione all’amianto in anni in cui l’utilizzo di tale materiale, diffusissimo in ambito industriale e civile, era consentito dalla legge).
L’azienda quindi, attraverso il medico competente che procederà alla valutazione del rischio Covid come rischio superiore a quello ordinario in considerazione della tipologia di attività e dell’organizzazione del lavoro, potrebbe legittimamente inserire il vaccino anti Covid-19 all’interno dei protocolli di sicurezza e disporre l’allontanamento del lavoratore che non si sottoponga al vaccino, ritenendolo inidoneo alla mansione.
A questo punto il datore di lavoro, se dispone di altre posizioni di lavoro di livello equivalente o inferiore per cui il rischio Covid non superi quello normalmente rinvenibile nei normali ambienti in cui si svolga la vita sociale, può assegnarle in via temporanea al lavoratore almeno fino alla fine dell’emergenza pandemica.
Se non ne dispone o se, per garantire l’occupazione del lavoratore, dovesse rendersi necessario procedere a modifiche significative dell’organizzazione del lavoro, può ritenere sussistente un’impossibilità temporanea della prestazione (art. 1464 c.c.) e sospendere il lavoratore senza retribuzione fino a quando la situazione permetterà l’utilizzo dello stesso senza rischi per sé e per gli altri nelle mansioni abituali.
Ove questa situazione di inutilizzabilità del lavoratore perdurasse per un tempo non determinabile e l’azienda sia in grado di provare che l’assenza del lavoratore produca un pregiudizio notevole alla sua organizzazione, potrebbe procedere al licenziamento per motivi organizzativi.
La soluzione del licenziamento è però da considerarsi extrema ratio e da valutare volta per volta in relazione alla specificità dei casi.
Andranno trattati con particolare attenzione eventuali casi di comprovata impossibilità del lavoratore a sottoporsi al vaccino derivante da particolari situazioni di salute da attestarsi mediante documentazione medica che il lavoratore stesso potrà produrre al medico competente.
Anche in questo caso tuttavia non si potrà consentire la permanenza del lavoratore negli ambienti e nelle mansioni a rischio, ma lo sforzo di ricollocazione del lavoratore dovrà spingersi fino alla modifica temporanea dell’organizzazione del lavoro.
A rinforzare tali conclusioni circa la necessità di inserire nei protocolli di sicurezza la vaccinazione anti Covid-19, soprattutto con riferimento a particolari ambienti e situazioni, si deve anche tenere conto della responsabilità che il datore di lavoro assume in relazione all’incolumità dei terzi che entrino in contatto con l’azienda e la sua organizzazione.
Si deve tenere presente infatti che ogni attività umana deve svolgersi senza pregiudicare la salute e la sicurezza dei terzi (art. 2043 c.c.) e che, nel caso di alcune attività, si assume una specifica obbligazione di custodia e protezione nei confronti di soggetti non appartenenti all’organizzazione (un ospedale o una RSA assumono una specifica responsabilità contrattuale nei confronti dei pazienti e degli ospiti che in condizioni di particolare fragilità sono affidati a tali strutture).
L’organizzazione di tali strutture quindi deve ispirarsi al principio del neminen laedere (tradotto: non danneggiare nessuno), declinato secondo il principio della massima cautela.
È vero che l’obbligo vaccinale può solo essere introdotto per legge, ma qui, sul piano tecnico-giuridico, si tratta di un semplice onere che, in considerazione dell’imprevedibile mutamento delle condizioni di lavoro e dei rischi connessi allo sviluppo della pandemia, viene a condizionare il diritto dei lavoratori di svolgere le mansioni abituali.
Dal contratto di lavoro sorge infatti per il lavoratore il diritto di svolgere le mansioni concordate (o quelle diverse consentite sulla base dell’art. 2103 c.c), ma questo diritto deve essere esercitato nell’ambito dell’organizzazione posta in atto dal datore di lavoro che ne è responsabile (“alle dipendenze e sotto la direzione” del medesimo – art. 2094 c.c.).
Se il datore di lavoro non può dunque “obbligare” i lavoratori a vaccinarsi può, però, a seguito della situazione sopravvenuta e degli obblighi di prevenzione e tutela sopra richiamati, condizionare l’esercizio del diritto del lavoratore a svolgere le sue mansioni ad un adempimento specifico quale quello vaccinale.
Se l’onere non viene adempiuto, il lavoratore non può essere sanzionato, ma legittimamente l’azienda rifiuta la prestazione e può sospendere temporaneamente l’obbligo retributivo.
Ovviamente la sospensione dal servizio dei lavoratori è misura da considerarsi non auspicabile ed è dunque importante che il datore di lavoro, con la collaborazione delle organizzazioni sindacali che possono dare un contributo essenziale all’obbiettivo di portare a termine una campagna vaccinale estesa ed efficace, organizzi adeguate iniziative di informazione e formazione per i lavoratori anche con il contributo esterno di esponenti del mondo scientifico ed interno dei soggetti che in azienda ricoprono cariche connesse alla prevenzione ed alla sicurezza.