Visita alla diga più bella del Trentino

Gita a Malga Bissina

Di quella ventina di dighe che in Trentino aiutano a trasformare la forza dell’acqua in energia elettrica, la più affascinante per storia, ingegno e grandiosità è senz’altro la diga di Malga Bissina, eretta all’imboccatura della Val di Fumo, a quota 1790 metri: imbrigliando le gelide acque del fiume Chiese è lo sbarramento a vallata larga tra i più suggestivi del mondo, complice naturalmente il magnifico paesaggio.

In uno splendido mattino di settembre l’appuntamento è ai piedi della diga: già la lunga e tortuosa strada immersa nel verde, tra ruscelli e pareti di roccia a strapiombo ci ricorda che stiamo percorrendo una valle senza sbocco, che terminerà proprio nel cuore dei ghiacci perenni del gruppo dell’Adamello.
La diga ci accoglie nel freddo del mattino, ancora non illuminata dal sole, scura, imponente, altissima, appena ingentilita da quei contrafforti che salgono dal verde brillante dei prati. Lì dietro, a pochi metri da noi, premono 60 milioni di metri cubi della limpida acqua del fiume Chiese.
Per fortuna ci accoglie il nostro consigliere e padrone di casa l’ing. Luigi Magnaguagno, responsabile Area Operativa della società Hydro Dolomiti Energia srl, società proprietaria di questa e altre 20 dighe, nonché di 35 centrali idroelettriche e 130 km di gallerie e condotte ricavate nelle montagne trentine.
Finalmente il sole fa capolino sopra le montagne che ci circondano e allora lo sbarramento ci appare meno minaccioso.
Luigi ci spiega che la diga è stata costruita nel periodo dei grandi sfruttamenti idroelettrici nelle Alpi negli anni ’50, coinvolgendo tutte le acque del bacino del fiume Chiese, trasformando i corsi fluviali e incidendo profondamente sull’ambiente, sull’economia e sugli usi e costumi delle popolazioni.
Persone che nel passato ne hanno temuto e patito le piene e le inondazioni, ma hanno anche imparato a convivere col fiume e del fiume, usando l’acqua per l’irrigazione, per il trasporto del legname, per il lavoro artigianale e come fonte preziosissima di energia, facendo di essa, ancora oggi, la vera e irrinunciabile ricchezza di tutto il territorio.
Oggi una portata d’acqua viene sempre rilasciata dalla diga proprio per garantire la naturale integrità ecologica della vita acquatica del fiume e per permettere la salvaguardia della normale struttura naturale dell’alveo.
Entrando nel piccolo museo a ridosso della parete, ammiriamo le foto dell’epoca e i disegni del progetto ideato dall’ing. Claudio Marcello: praticamente sconosciuto tra i non specialisti, il suo lavoro è stato un riferimento mondiale negli anni ’50 e ’60 e ha contribuito al successo della Scuola italiana di Ingegneria progettando in 25 anni più di 30 dighe in Italia e una decina all’estero.

Il principio della sua idea di diga “a gravità alleggerita” è semplice: la diga “a gravità” presenta il fianco bagnato dal lago non diritto bensì ben inclinato per così ricevere stabilità dalla forza di gravità della massa d’acqua soprastante.
Anziché avere una struttura massiccia, la diga “alleggerita” presenta la parete a monte con spessori relativamente sottili, ma appoggiata a grandi contrafforti, cavi all’interno, semplicemente accostati tra di loro: quindi grande resistenza, grande risparmio di calcestruzzo, ma grande perizia di esecuzione che deriva da studi molto accurati.
Infatti fino a 3500 tecnici e operai hanno lavorato duramente in quei tre anni in questo enorme cantiere per costruire questa e poi altre due dighe minori a valle, chilometri di condotte, la centrale e la lunga strada di accesso: con la dinamite estraevano dalla montagna la roccia di tonalite, compatta e resistente, con la quale producevano in loco il calcestruzzo che veniva portato fino alla sommità con un sistema di teleferiche orizzontali.
Grande ammirazione per questo lavoro di ingegno, sacrificio e dedizione.
Dopo la visita alle foto dell’epoca – abbiamo ammirato in posa anche il giovane ing. Tomassini, papà di un altro nostro caro consigliere – siam potuti entrare proprio all’interno degli altissimi contrafforti, che sembrano la navata di una cattedrale gotica: noi tutti col naso all’insù, in rispettoso silenzio, solo il gocciolio delle infiltrazioni di acqua, che vengono accuratamente misurate, perché solo la continua e attenta misurazione di tutta la struttura fatta dai guardiani tramite sofisticate apparecchiature – dalla posizione delle sommità, alla dimensione di ogni crepa, alla portata delle infiltrazioni – è garanzia di sicurezza e ogni minimo scostamento allarma i tecnici che intervengono. Pertanto la diga è sempre presidiata da un guardiano e quando la lunga e tormentata strada è ricoperta di neve deve arrivare sin qui con una apposita teleferica. Oppure in elicottero.
Usciamo all’aperto e guardiamo alla diga con occhi diversi.
Notiamo su un contrafforte alcune prese per l’arrampicata e Luigi ci conferma che su quella parete della diga si svolge annualmente una gara di arrampicata in velocità, denominata Speed Rock: questa competizione da vent’anni è divenuta ormai una tappa fondamentale della “Coppa del mondo speed di arrampicata”. Il segno dei tempi.

Ormai è ora di incamminarsi costeggiando il bel torrente, su verso il rifugio dove ci aspetta un meritato pranzo di montagna.
La giornata è tersa, sopra l’enorme bacino blu svettano i 3400 metri della cima del Carè Alto, noi lasciamo la diga che ora in piena luce ci sembra il muro fortificato di una antica città, con i suoi bastioni, i torrioni, i merli, una fortezza d’acqua: è un’immagine muraria, possente, satura di storia.