Come era dove era
Quando ricostruire un monumento crollato diventa un dovere verso le future generazioni.
Quella specie di mito vivente che è Gian Antonio Stella, qualche mese fa (4 maggio 2016), ha raccontato sul “Corriere” la storia commovente della ricostruzione del Duomo di Venzone.Giuseppe Colombi
Consigliere ALDAIDopo il terremoto del Friuli, il solito funzionario politicamente corretto, uno dei molti di cui l’Italia è piena, aveva giudiziosamente proposto di coprire con “una cupola di vetro” le rovine della chiesa, senza ricostruirla. E alla soprintendenza c’era chi pretendeva di decidere da solo per tutti. Invece i solidi cittadini locali, dopo aver “mandato a stendere” i burocrati, hanno voluto restaurare pietra su pietra il loro duomo. Ora quella chiesa rinata è lì a testimoniare che a volte la volontà può vincere sulla stoltezza.
Non è cosa nuova: già nel 1902, crollato il campanile di San Marco, i veneziani decisero che l’avrebbero riedificato subito “come era, dove era” e l’impresa fu terminata appena dopo i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unità Italiana. Il campanile fu reinaugurato nel 1912.
Oggi, a un secolo di distanza, pochi, arrivando in piazza, sanno
che quella torre imponente “non è più l’originale”: di certo, anche se
lo sapessero, la cosa non toglierebbe loro il sonno. Portare dunque allo
stato primigenio, ridare l’aspetto e a volte persino le funzioni
perdute ad un monumento può dunque essere non una pratica arbitraria, ma
una necessità.
Il visitatore attento troverà all’interno del
Colosseo una targa che ricorda l’ultimo vero restauro di quel
monumento: nel 508, quindi quattro secoli e mezzo dopo la sua
costruzione, Decio Mario Venanzio Basilio, praefectus urbis, restaurava
(a sue spese) l’anfiteatro, restituendolo alla sua funzione di luogo di
“venationes”, ovvero cacce con animali feroci. Nel medioevo e
successivamente, invece, se ne fece una cava di travertino e bronzi.
Se
è evidente che oggi sarebbe ardito sostenere la ricostruzione “tout
court” dell’Anfiteatro Flavio, tuttavia il tema del restauro per così
dire “filologico” si impone all’attenzione. Alcuni casi possono essere
più controversi: il simbolo stesso della Valle dei Templi di Agrigento,
le quattro colonne del cosiddetto “Tempio dei Dioscuri”, derivano da una
ricostruzione ottocentesca assai arbitraria, realizzata assemblando
materiali di origine diversa. Ma è indubbio che ad Agrigento l’utilizzo
creativo del computer nel riconoscimento dei materiali potrebbe forse
permettere la quasi completa “anastilosi”, ovvero il vero e proprio
rimontaggio, di due interi templi sconquassati da antichi terremoti. E
forse qualcosa di simile potrebbe applicarsi persino ad Atene sulla
spianata del Partenone, dopo lo sciagurato bombardamento di Morosini nel
1687 e i più raffinati saccheggi di Lord Elgin nell’800.
Anche
quando a Roma una demenziale esplosione terroristica distrusse nel 1993
il portico di San Giorgio al Velabro c’è voluto probabilmente il
coraggio e la buona volontà di qualcuno per evitare che ci si limitasse a
raccogliere e buttare i cocci. Il restauro, certosino, costituisce un
lavoro magnifico, testimonianza dei miracoli di cui può essere capace
l’ingegno umano.
A merito dell’intera Sicilia, spesso citata
soltanto per le opere pubbliche incompiute, va poi ricordato
l’eccellente risultato della ricostruzione della Cattedrale di Noto. Una
parola va dedicata infine anche all’esemplare rifacimento del ponte di
Mostar, realizzata nelle condizioni più drammatiche dell’ex Jugoslavia.
Certamente occorre guardarsi dalle sempre possibili esagerazioni: nella
Francia dell’Ottocento sono passati alla storia gli entusiasmi
ricostruttivi di Eugène Viollet-le-Duc, autore tra l’altro del restauro,
per così dire “creativo” fino alla vera e propria falsificazione, della
cittadella di Carcassonne.
Ma la città dove più costantemente nel corso della storia ci si è confrontati con la tematica qui illustrata, lo si lasci dire a un romano di origine pavese-oltrepadana, è proprio Pavia. Qui, dopo i fatti d’arme del 1525-27 il Castello Visconteo fu mutilato e mai più interamente ricostruito, come si sarebbe potuto ragionevolmente fare. Poi, in epoca napoleonica gli eserciti francesi trasformavano in stalla San Pietro in Ciel d’Oro, e la basilica semicrollata stava per scomparire, fino a quando, nella seconda metà dell’Ottocento, non ne fu realizzato un radicale restauro che l’ha restituita alle antiche funzioni, permettendo tra l’altro la ricollocazione al suo interno dell’Arca di Sant’Agostino. Peggior sorte capitò allo storico Ponte Coperto del 1354, erede di un più antico ponte romano: dopo che nel settembre 1944 bombardamenti alleati ne avevano distrutto una delle sette arcate, non solo non fu ricostruito, ma dopo la guerra si decise di distruggerlo con la dinamite. Il ponte del 1948, ricostruito trenta metri più a valle, su cinque arcate invece di sette, è il muto ed incolpevole erede di questa barbarie. Probabilmente non durerà a lungo, per la cattiva qualità del calcestruzzo utilizzato: comunque, né com’era e nemmeno dov’era, prima.
Nella capitale longobarda il caso più eclatante, per non utilizzare altri più congrui aggettivi, è quello dell’antica Torre Civica, divenuta campanile del Duomo, dopo che Pellegrino Tibaldi nel 1585 aveva completato sulla sua sommità una (pesantissima) cella campanaria. All’inaspettato tragico crollo del 1989 non fece seguito alcuna azione significativa: dopo il compianto per le vittime, si accumularono nel fossato del Castello i resti marmorei della cella tibaldiana e poi… basta.
Solo l’allora onorevole Sgarbi, personaggio forse controverso, ma indiscutibile per competenza, si preoccupò di immaginare un disegno di legge per la ricostruzione: non se ne fece nulla.
La sommessa conclusione di questo scritto è dunque obbligata: forse i colleghi dirigenti pavesi, molto presenti nella vita cittadina, potrebbero farsi parte attiva per rilanciare l’idea, e convincere popolo, istituzioni ed imprese locali a raccogliere le risorse necessarie per realizzare un progetto così virtuoso. Di certo avrebbero dalla loro, e potrebbero gratuitamente coinvolgere, Vittorio Sgarbi.