Il manager tra capitalismo e religione

Si è sviluppato negli ultimi anni un interessante dibattito sul profondo intreccio che è sempre esistito tra economia e religione, tra il mercato e lo spirituale, un intreccio che perdura ancora oggi

Giampietro Rossi 

Presidente Federmanager Padova e Rovigo
L'economia e la religione invero da secoli si sono incontrate e si incontrano, si sono scontrate e si scontrano e questo profondo contatto o contrasto emerge ai nostri occhi. La parola greca oikonomìa identifica bene il senso e il significato di questo intreccio, seppure in origine indicasse quella sfera della vita sociale che attualmente definiremmo come economia aziendale o della casa. Oggi invece ha acquisito più estesi significati: economia di un paese, economia della salvezza, economia nel cristianesimo

Il tema, a qualcuno, potrà sembrare un po' bizzarro perché, quando pensiamo alle imprese e alle banche normalmente non ci viene di certo in mente l’immediata associazione al sacro della religione. In realtà forse dovremmo ricrederci e incominciare a farlo e a studiare più da vicino alcuni aspetti dell’antropologia per capire meglio come il “capitalismodi oggi, più che un fenomeno tecnico o pragmatico sia più simile di quanto si possa immaginare a un fenomeno religioso. Se guardiamo alla storia delle varie civiltà ci accorgiamo che è sempre esistito un certo rapporto tra economia e religione.

La logica dell’homo oeconomicus, intesa come la semplificazione della realtà umana il cui agire, nella complessità sociale, risulta sostanzialmente in funzione di motivazioni economiche, legate alla massimizzazione della ricchezza, è molto più antica della scienza economica stessa.

Ben prima dell'economia è proprio nella religione che compare la logica dell’homo oeconomicus: il primo commerciante infatti è stato l'uomo agli albori della storia umana e il primo creditore è stata la divinità. Se non ci mettiamo nella giusta prospettiva storico-antropologica però non possiamo capire le profonde implicazioni sociali del detto capitalismo.

In questa ottica, da qualche decennio, si sta sviluppando il dibattito intorno ad una teologia economica, sulla scia di quella politica di Adam Smith ed altri, che sta conquistando un certo interesse.
Oggi numerosi sono gli studi che vanno a indagare le radici teologiche dell'economia e anche le radici economiche della teologia e cioè di come la teologia sia stata interessata da “categorie economiche” almeno nella sua fase iniziale. Infatti se consideriamo il significato delle parole: prezzo, debito, credito, credere, fede, mercato, emerge immediatamente come, all’origine, queste parole avessero a che fare la teologia e il pensiero sacro. Ciò che invece constatiamo oggi è che c'è poco dialogo tra la teologia e l'economia e questo perché purtroppo, la formazione degli economisti risulta essere sempre più distante dalle scienze umane e la formazione dei teologi sembrerebbe non cercare contatti con le questioni economiche anche se ci sarebbe molto da dire su questo terreno comune.

Le riflessioni sull'economia sono davvero molte e anche molto antiche e non sono nate solo da commercianti e banchieri, ma anche nell’ambito del sacro. 

Tutte le Scritture (Antico e Nuovo Testamento, lettere di San Paolo) se lette nella prospettiva economica presentano un lessico specifico, un lessico economico a diversi livelli, che si integra nel messaggio biblico prima e in quello cristiano poi. Pensiamo ad esempio al concetto diAlleanza”, concetto fondamentale a partire dall' Antico Testamento e che ha dominato la storia.

Il significato antico di Alleanza, patto fra contraenti, diventa via via il paradigma dei trattati commerciali, dei contratti economici del tempo. Nei Vangeli esiste una vasta gamma di parole legate agli aspetti economici della vita sociale: si parla spesso infatti di economia, di monete, di talenti, dracme, commercianti, mercanti, scambi, debiti e crediti, al punto tale che furono proprie queste parole economiche a contribuire alla formulazione di concetti importanti come “prezzo della salvezza”, “Gesù che ha pagato per noi” e “riscatto”.

E’ proprio nelle lettere di San Paolo prima e poi negli scritti dei primi Padri della Chiesa che compare la parola oikonomìa usata per descrivere e spiegare alcune verità problematiche del Cristianesimo.
Successivamente, fu nel fiorire nel mondo degli ordini religiosi, che comparvero i primi veri trattati di economia, dove quelle “categorie economiche evangeliche” vennero utilizzate per teorizzare l’organizzazione di piccole comunità sorte attorno ai monasteri. E’ proprio in questi trattati che si possiamo trovare i germogli delle teorie sulla moneta, sull'usura, sull'interesse e su tutta quelle serie di concetti, categorie economiche e relazioni che così bene poi descrivono la prassi e il pensiero dell’odierna economia europea e non solo.

Questa dimensione religiosa del capitalismo può essere paragonata alle radici di una pianta e ma le radici, in questo caso, non sono il passato dalla pianta stessa ma sono il suo presente: senza radici la pianta muore.

Per capire cosa stia accadendo oggi nella finanza, nel credito e nella politica delle grandi imprese multinazionali, non si dovrebbe dimenticare questo passato che senz’altro ci aiuta a comprendere meglio le differenze e le varie espressioni del capitalismo planetario. W. Benjamin, riflettendo su questa questione, già nel 1921 scriveva: "Nel capitalismo va scorta una religione: vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all'appagamento delle stesse ansie, pene e le inquietudini alle quali un tempo davano risposte le cosiddette religioni”. Per il grande pensatore il capitalismo era una religione che non solo aveva tracce di sacro, ma che si presentava proprio come religione a tutti gli effetti: a cento anni di distanza possiamo dire la stessa cosa?
 
Oggi il vero idolo del nostro tempo è ilconsumo” e con lui il “consumatore” e i nuovi profeti di questa religione sono i finanzieri, i manager e lo scopo è lo sviluppo del business.

L'ideologia del business sta diventando la prima religione dell'epoca della globalizzazione e dunque questo diventa il cuore dell’attuale discorso su religione e grande impresa.

La grande impresa non è quella del secolo scorso, ma è quella delle grandi business school di tutto il mondo. Queste sono i templi del nuovo sacro ed esse sono di grande successo e presentano la loro ideologia come una tecnica e non come una religione e quindi, in quanto tecnica, vuole essere di portata universale e si presenta laicamente e senza dogmi.

Questa visione è però fuorviante, perché ciò che viene presentata come una tecnica, in realtà, è un'ideologia vera e propria e come tale dovrebbe essere analizzata e criticata. Infatti questa nuova ideologia, detta anche neomanageriale, presenta i propri strumenti come fossero di valenza universale: un'automobile, un PC funzionano in maniera similare dappertutto. In realtà dietro questa ideologia della tecnica si veicola un'idea di mondo, di individuo e di rapporti sociali ben caratterizzati: è una religione che presenta due dogmi principali, la meritocrazia e l’incentivo. Perciò è necessario guardare con molta più attenzione alla suddetta ideologia, perché mentre si discute molto sulla sostenibilità ambientale del capitalismo e si parla molto di etica economica, si parla poco dell'etica neomanageriale, che entra in tutte le organizzazioni umane, dalla scuola, alla politica, alla sanità, eccetera.

Alla base del successo di questa ideologia, a ben guardare, troviamo la sua capacità di riciclare molte delle idee note dei suoi critici del ‘900, come hanno mostrato alcuni studiosi francesi (E. Chiapello e L. Boltaski).

Il capitalismo contemporaneo ha un grande successo perché consuma i propri nemici, quelli che nel ‘900 si identificavano come i nemici sociali (ossia coloro che affermavano che il capitalismo aumenta le diseguaglianze) e i nemici estetici (chi diceva che il capitalismo è “brutto” e crea dei mostri dal punto di vista estetico): il capitalismo cresce mangiando i suoi nemici come è avvenuto da sempre in tutti i grandi imperi. 

Oggi invece sono proprio quei cosiddetti nemici, i creativi e gli esteti che sono spesso al centro di molte imprese della New Economy tanto che la responsabilità sociale d'impresa è diventata essa stessa un grande business del moderno capitalismo.

Chiapello e Boltaski affermano che l’accento posto dal neomanagement (inteso come il moderno complesso delle funzioni direttive e gestionali di un'azienda) sulla convivialità, sui rapporti umani autentici, rappresenti nell'ordine delle organizzazioni della produzione, una risposta alle critiche che denunciavano l'alienazione nel lavoro e la meccanizzazione delle relazioni umane. La fine della burocrazia e del suo intento di eliminare tutto ciò che non è razionale (ovvero formalizzabile e calcolabile), dovrebbe permettere un ritorno a forme di funzionamento a misura d’uomo nelle quali le persone possano esprimere le proprie emozioni, le proprie intuizioni e la propria creatività. 

Il neomanagement non propone forse a ciascuno di non essere più un semplice strumento, ma di realizzare le proprie aspirazioni ed esprimere la propria personalità?

Si prospetta dunque un recupero della persona tutta, sapore questo di una prospettiva antica.

Per quel che riguarda la proposta di realizzazione delle proprie aspirazioni, sostenuta dal neomanagement e alla possibilità di esprimere la propria personalità, in riferimento a quest’ultima abbiamo che, in termini più generali, ponendo l'accento sulla polivalenza, sulla flessibilità dell'impiego, sull'attitudine ad apprendere e ad adattarsi a nuove funzioni, sulle capacità di coinvolgimento, di comunicazione, sulle qualità relazionali, il neomanagement si orienta verso quello che viene sempre più spesso chiamato il saper essere, contrapposto al sapere e al saper fare, piuttosto che sul “possesso” di un mestiere e sulle qualifiche acquisite.

Questi orientamenti sono spesso presentati come uno sforzo per indirizzare il mondo del lavoro verso una dimensione più umana, anche se talvolta possono dare origine a nuovi rischi di sfruttamento.

Il tema del rapporto tra il capitalismo e lo spirituale è uno dei luoghi classici del pensiero sociale del '900: Max Weber in Germania, tra i più famosi e, in Italia, Amintore Fanfani ed altri. Weber sosteneva che l’economia moderna, nella sua origine, nel suo sviluppo e nella sua forma capitalistica doveva essere letta in rapporto alle trasformazioni culturali e anche agli orientamenti spirituali del tempo.

Attualmente pensiamo all'economia come a una grande macchina, come a un sistema, come a qualche cosa che riguarda solo la tecnologia o i rapporti nel mercato del lavoro e tendiamo a dimenticare che l'organizzazione economica ha sempre intimamente a che fare con un popolo, i suoi orientamenti spirituali ed il suo tempo. Si potrebbe altresì affermare che l’organizzazione economica altro non è che il riflesso materiale e organizzativo di un'evoluzione culturale e spirituale di una civiltà.

In Italia Amintore Fanfani, a differenza di Weber, quando era ancora un giovane professore, prima di diventare il noto politico, sostenne che in realtà il capitalismo era nato in un contesto cattolico. In tal senso aveva cercato di far vedere come alla base del capitalismo ci fosse tutta una serie di virtù e di tradizioni che sono passate attraverso l’esperienza francescana e, più in generale, attraverso un certo modo di guardare le cose materiali, non per sé stesse, ma in riferimento al valore che potevano assumere per l'intera comunità e, più in generale, per lo sviluppo dell'umanità stessa.

Ci si potrebbe ora chiedere se c’è ancora uno spirito che può animare il fare nell’economia moderna e se l'organizzazione economica abbia bisogno di una dimensione spirituale, culturale profonda che abbia a che fare col il senso e il significato delle cose.
A partire dagli anni 60-70, è avvenuta una trasformazione nella storia del rapporto tra spirituale e capitalismo che ha comportato una graduale riduzione dell’importanza della matrice cristiana, nelle sue diverse espressioni, che certamente sono state fondamentali per la nascita del capitalismo moderno. In quest’ultimo prevale quello che potremmo chiamare uno spirito edonista che ha imparato ad utilizzare il desiderio soggettivo, rendendo oggetto tale desiderio, nella molteplicità dei consumi che il mercato è in grado di offrire. Questo nuovo spirito è ciò che avrebbe un po' per volta preso il posto delle matrici spirituali cristiane.

Giampietro Rossi

Giampietro Rossi

Tuttavia, a ben guardare, incominciano a comparire alcune crepe che dovrebbero attirare la nostra attenzione: una di queste riguarda la crescente fragilità relazionale ed emotiva dei dipendenti e dei dirigenti delle grandi imprese e non solo. Per questo molte di loro prevedono un burnout (ossia l’esito patologico di un processo che scaturisce dallo stress lavorativo) nello sviluppo normale di una carriera di un manager perché questo risulterebbe essere una tappa inevitabile per come viene concepito, pianificato, incentivato il lavoro del management.  Spesso infatti a un primo burnout ne segue un altro e poi un altro ancora perché ripetitivamente si torna dentro le stesse relazioni che l’hanno provocato. E’ un malessere alla cui radice si annida un vero e proprio paradosso, ossia quello che vieta di mescolare i linguaggi e le emozioni della vita privata con quelli della gestione della vita professionale, che si risolve solo nel saper distinguere i rispettivi ambiti.

La capacità di mantenere separata la dimensione lavorativa dal proprio tempo libero ha un effetto positivo sullo stato di benessere della persona, riduce il rischio di burnout e innalza la soddisfazione generale dell’individuo.

Le aziende dovrebbero essere in grado non solo di ristrutturare il lavoro dei dirigenti per ridurre le pressioni lavorative, ma anche di incoraggiare ed incorporare strategie adatte a una migliore gestione della separazione tra lavoro e vita privata come parte della formazione manageriale. Pertanto parole come dono, gratitudine, amicizia, perdono, gratuità che tutti riconosciamo essere importanti nei rapporti di relazione familiari e sociali, dovrebbero essere tenute fuori dai luoghi di lavoro perché lì inefficaci e soprattutto perché potrebbero diventare pericolose.

Nelle imprese tradizionali del capitalismo del passato, ai dirigenti veniva chiesto molto, ma non veniva chiesto troppo e soprattutto non si invadevano gli ambiti della famiglia, della comunità, della religione, del partito, ecc. nei quali si svolgevano momenti di vita non meno importanti di quelli lavorativi. Si capisce quindi che il “bluff” pericoloso delle moderne e grandi imprese del capitalismo di ultima generazione si nasconde nell'uso dei registri simbolici e motivazionali, snaturandoli, manipolandoli e ridimensionandoli radicalmente rispetto a quelli utilizzati in passato dalle varie fedi religiose.

Il nuovo capitalismo si è accorto però che quanto detto sopra non basta ma che deve rivolgersi alla persona nella sua completezza e non solo fare riferimento a ciò che riportato in un contratto, ma che deve saper attivare le motivazioni più profonde dell'essere umano, anche religiose e che deve fare appello alla parte migliore delle persone. Viene richiesto un impegno di tempo, di priorità, di passione, di emozioni che non può essere giustificato ricorrendo al solo registro del contratto e del denaro, questo è troppo poco, ma anche al registro religioso che prevede il dono di sé e del sacrificio.

Spesso però, col passare del tempo, questi investimenti affettivi non vengono riconosciuti e diventano crediti emotivi che si accumulano senza mai essere mai saldati: di qui le crisi che conseguono dalle calcificazioni dei primi tempi, che si trasformano in delusione, insicurezza e disistima, tanto da arrivare a sentirsi perdenti,  parola molto usata nelle imprese con il conseguente, talvolta rapido, crollo dell’immagine del dirigente ideale costruita fino ad allora. Ovviamente il gioco non vale la candela: ci si rende conto che si è speso molto della propria vita e che il gioco continua e altri succederanno ad altri per rimpiazzarli, in una giostra infinita.

Questa ottica manageriale sta oggi manipolando stima, riconoscimento, comunità, sacrificio, merito perché le usa senza gratuità e quindi senza responsabilità per i costi emotivi, per le ferite che l'ambivalenza di queste parole grandi porta sempre con sé.

Vorremmo avere la creatività da parte delle persone, vorremmo avere le cose più alte, vorremmo avere la libertà, la gioia, ma nel contempo le vorremmo anche gestire. Questo è un punto fondamentale: noi dovremmo essere coscienti della realtà e cioè del fatto che se vogliamo avere la parte migliore delle persone dovremmo invece rinunciare a gestirle completamente. 

Le persone danno molto se messe in condizione di dare tutto: se si vogliono persone veramente creative, libere nel lavoro occorre rinunciare al loro controllo, ma il capitalismo moderno teme fortemente gli effetti potenzialmente destabilizzanti e sovversivi delle grandi motivazioni umane.

Queste predisposizioni positive, quando sono profondamente intrecciate con la cultura e gli strumenti della gestione aziendale possono favorire, nel migliore dei casi, l'emergere delle motivazioni più profonde della persona. Tuttavia esse possono, nel contempo, anche favorire il cinismo organizzativo quando ci si accontenta degli incentivi e, smettendo di chiedere troppo alle persone, si finisce per sminuire e mortificare le potenzialità dell’individuo, perché l'incentivo non è certo sufficiente per spendere una vita.

Certamente gli incentivi fanno comodo a tutti, ma prima di tutto si deve risponde alla propria coscienza, all’onore e al rispetto della dignità personale e altrui: finché si continueranno a produrre visioni così riduttive dell’operosità degli uomini e delle donne, si continueranno a generare luoghi di lavoro e del vivere, troppo piccoli per quell’animale malato d'infinito che si chiama Homo Sapiens.

Bibliografia
Luigino Bruni – Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo – Slow Food editore – 2015
Luigino Bruni – Capitalismo infelice – Vita umana e religione del profitto – Slow Food Editore – 2018
Elettra Stimilli – Ascesi e capitalismo – Quodlibett Editore - 2011