Costruire la casa cominciando dal tetto
Joseph Stiglitz sostiene che l’euro, così com’è, minaccia il futuro dell’Europa
Luca Luchesini
Consigliere ALDAI e componente della sotto-Commissione Federmanager Industry 4.0
Giuseppe Colombi
Consigliere ALDAI
Tecnicamente, se qualcuno volesse, non sarebbe impossibile costruire una casa partendo dal tetto. Certo, non è razionale, è più costoso, e il risultato, se non proprio sbilenco, ha forti possibilità di essere insoddisfacente. E poi, fare i muri cominciando dai mattoni dell’ultima fila in alto è un grattacapo. Per analogia, nell’ultimo ventennio questo sembra essere stato l’approccio con cui i molti responsabili e decisori di vario grado coinvolti hanno gestito l’operazione dell’euro.
Il libro di Joseph Stiglitz “L’euro”, apparso nel 2016 ed edito in italiano pochi mesi fa, in sostanza afferma questa semplice verità. Il suo autore ha vinto il Nobel dell’economia del 2001 con i suoi studi sui fallimenti dei mercati in presenza di asimmetrie di informazione tra gli attori che ne fanno parte, e su questo basa il suo convinto approccio neokeynesiano sulla necessità di regolatori e azioni esterne per prevenire o almeno correggere i periodici fallimenti e crisi dei mercati. Insomma, un chiaro assertore non solo della liceità ma anche della necessità di interventi dello Stato (e quindi della politica) nell’economia.
L’analisi è serrata e senza sconti per nessuno: ne risulta un libro di oltre quattrocento pagine fitte, che però si legge come un romanzo. Tentiamo di riassumerne i principali temi:
- la costruzione dell’euro è avvenuta senza prima dotarsi di un solido quadro di riferimento macroeconomico di compensazione tra economie deboli e più forti: giunta inaspettata una crisi di cui nessuno aveva considerato la possibilità, il sistema, combattuto tra la necessaria solidarietà tra aree diverse ed il rispetto delle sovranità statali più forti, sta andando “in tilt”;
- se una crescita rapida che generi benefici condivisi è il segnale di un’economia sana, come almeno in parte è avvenuto in Usa e Cina, in Europa è accaduto il contrario: si diffondono stagnazione, disoccupazione e crescita delle disuguaglianze;
- da trent’anni le grandi istituzioni internazionali, FMI, Banca Mondiale, e settori importanti dell’UE, si affidano acriticamente ad un pensiero neoliberista che vorrebbe mostrarsi autorevole perché “tecnico”, mentre in realtà, fondandosi su teorie non dimostrabili e fallaci nella pratica, non ha fatto che generare disastri a livello globale. È in nome di questa vera e propria ideologia fideistica, il fondamentalismo di mercato, che, imponendo austerità di fronte ad una prolungata crisi finanziaria mondiale, in Europa se ne sono perpetuati gli effetti;
- le istituzioni europee, e in particolare la BCE, sono state pesantemente segnate dall’ossessione germanica del controllo dell’inflazione e dei deficit/debiti statali: esse non hanno minimamente considerato l’occupazione come un valore da perseguire in sé, né tantomeno hanno sviluppato la solidarietà tra i Paesi comunitari;
- l’eurozona è dunque malata sin dalla nascita: nei fatti, nella convinzione che con l’euro venivano meno il rischio di cambio e di tasso d’interesse, si è resa rigida l’economia costruendo, invece della convergenza tra i Paesi dell’eurozona, la loro divaricazione crescente;
- in questo modo, essenzialmente per salvaguardare gli interessi delle banche francesi e tedesche, si è inutilmente imposta ai Paesi più deboli (Grecia ma non solo) una situazione socialmente intollerabile, perdendo almeno un decennio senza costrutto. È evidente che, in queste condizioni, si va verso il fallimento dell’euro;
- le principali istituzioni politiche e finanziarie globali escono assai male dal libro di Stiglitz:
- il Fondo Monetario Internazionale appare come una banda di incapaci che da decenni applicano in modo autoritario ricette manifestamente controproducenti, sempre giustificandone a posteriori il fallimento con “il mancato rispetto di regole e prescrizioni”;
- la BCE sarebbe stata gestita dapprima da personaggi palesemente inadeguati ed avrebbe trovato un minimo di autonoma capacità d’intervento solo dopo l’avvento dell’attuale governatore;
- la Commissione di Bruxelles, composta da politici meno che mediocri, vittima della già citata ideologia neo-liberista, per impreparazione, arroganza e spirito vendicativo ha imposto ai singoli Paesi misure politiche controproducenti, senza nemmeno rendersi conto dei danni che stava facendo. Esemplare, da questo punto di vista, il trattamento riservato dagli altri ministri finanziari (burocrati) all’unico economista con cui si sono trovati a discutere (il greco Varoufakis, cui Stiglitz riconosce grande preparazione). - Come verificato nel corso di tutto il ventesimo secolo, nella visione di Stiglitz la Germania si conferma come gigante economico ma nano politico, incapace di esercitare una leadership autorevole sull’area che pure domina.
- Costituiscono un vero e proprio fallimento le cosiddette “riforme strutturali”, imposte dalla Troika (FMI, BCE, Commissione) ad una eurozona che manca degli strumenti di compensazione tra Stati come un’assicurazione di disoccupazione comune, uno standard sanitario minimo condiviso ed una garanzia comune dei depositi, che risultano invece fondamentali nell’economia statunitense, già favorita dal fatto di avere una lingua comune e totale mobilità interna. Si tratta di misure spesso irrilevanti, vessatorie, a volte banali, che interferiscono pesantemente sulla conduzione degli Stati membri, accanendosi in particolare con i governi meno allineati al pensiero mercatistico dominante. Valgono da esempio certe offensive quanto inutili misure imposte al governo greco, financo sulla definizione di latte fresco.
- Persino sulle politiche industriali, su cui di recente ci era capitato di intervenire a commento delle posizioni smaccatamente parziali ascrivibili ad un certo istituto italiano ed al suo presidente(1), Stiglitz sostiene che averne limitato per legge comunitaria l’ambito di intervento ha costituito un evidente vantaggio solo per la Germania, il cui surplus della bilancia commerciale è comunque inaccettabile in un’area in cui si voglia perseguire la convergenza economica.
Fin qui la “pars destruens” del libro, brillante ed incisiva nell’analisi. Stiglitz non è certo tenero con il mondo da cui egli stesso proviene, ma non si può dire che parli senza cognizione di causa.
Più faticoso appare invece seguire e condividere la ricerca dei possibili rimedi, che, non dimentichiamolo, dovrebbero essere calati nel complicato contesto europeo attuale; Stiglitz individua tre alternative:
- continuare a barcamenarsi come fatto finora, generando ulteriori malcontento e sfiducia verso euro e UE, mai così impopolari, con la prospettiva di pregiudicare definitivamente l’intero processo di integrazione, grazie anche all’affermarsi di forze populiste centrifughe, o peggio;
- considerare come un parziale successo l’avvio dell’Unione bancaria, accelerando con un robusto programma neokeynesiano a livello continentale, con mutualizzazione dei debiti e di larghe porzioni del welfare (ad esempio assicurazione di disoccupazione europea), adottando anche politiche industriali mirate per aree depresse. Per fare questo sarebbe necessario vincere la rigida ideologia renano-wallstreetiana dominante (la storia si ripete…) ma occorrerebbe una classe politica capace di sfidare la Germania. E non la si vede proprio;
- divorzio consensuale, con reintroduzione di valute nazionali (euro-greco, euro-spagnolo, etc.) per ristabilire i meccanismi di riequilibrio legati alla flessibilità dei tassi di cambio e di interesse.
Vale la pena di soffermarsi su quest’ultima ipotesi che, di questi tempi, trova i più inattesi fautori, ma che sembra affetta un certo “strabismo”, in particolare da parte dell’economista americano. Per Stiglitz, questa strada sarebbe relativamente poco costosa, in quanto ciascuno Stato nazionale tornerebbe a battere moneta creandola dal nulla in maniera esclusivamente elettronica e conferendole valore in quanto unico mezzo accettato (e minuziosamente controllato, data la natura digitale) per il pagamento delle imposte.
Riguardo al tasso di cambio, esso sarebbe automaticamente valutato dai…mercati finanziari, che sono molto efficienti nel gestire questi rischi (sic!). Si assiste dunque ad una improvvisa “riabilitazione” proprio di quegli stessi mercati di cui si sottolineava l’imperfezione e la malvagità quasi intrinseche nei capitoli “distruttivi”.
Viene da pensare che un simile ampio ricorso al torchio monetario e al debito se lo possano permettere gli Stati che hanno modo e mezzi per esercitare un potere coercitivo (hard o soft poco importa) per farsi pagare le tasse (a casa propria) e farsi comprare i titoli di debito a interesse vantaggioso (fuori). Sicuramente è il caso degli Stati Uniti, ma certo non della Grecia, e neppure di Spagna e Italia: magari non risulterebbe facile nemmeno per la stessa Germania.
Questo forse spiega l’ossessione tedesca per i deficit di bilancio altrui e la propensione al perseguimento di avanzo commerciale: se un Paese può contare solo sulle plusvalenze che ottiene vendendo anno dopo anno i suoi prodotti sui mercati esteri, come si fa a chiedergli di rinunciare a metter via fieno per possibili tempi duri finanziando, senza vere contropartite, le cicale pubbliche e private dei vicini meridionali?
In questo, nel terzo scenario, consiste lo strabismo di Stiglitz, che perdona i mercati finanziari e dimentica la sua proposizione d’esordio che la moneta (e l’euro non fa eccezione, anzi) non è solo un fattore economico ma forse anche un vincolo politico e ideale. Viene da dire che questo vincolo ideale è forse la sola ragione per cui l’edificio ancora regge, dopo tutti gli shock cui è stato sottoposto.
Ma anche se si dissente con le ricette di Stiglitz o con quelle opposte dei neoliberisti, il problema resta: l’Europa è ancora una promessa non mantenuta, anzi miseramente tradita per larghi strati della sua popolazione, e qualsiasi classe dirigente degna di questo nome dovrebbe dapprima definire chiaramente il problema, per poi tentare abbozzi di soluzione, evitando in primis le hybris ideologiche spesso alimentate da disonestà intellettuale, che Stiglitz tanto bene denuncia sul versante neo-liberista, ma nelle quali poi qualche volta inciampa nel perseguire il suo disegno neokeynesiano.
(1) Colombi-Luchesini: “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”.
Dirigenti Industria - marzo 2017