50 miliardi di solidarietà fiscale dei manager fanno riflettere sull'urgenza di equità
Il ceto medio paga per tutto l’arco della vita lavorativa e continua a pagare da pensionato, finanziando tutto il welfare, anche di chi non ha versato imposte e/o contributi. Il rapporto di Itinerari Previdenziali dimostra che il sistema è al limite, perché non riusciamo più a sostenere il sistema delle prestazioni sociali né, tantomeno, a reperire le risorse necessarie agli investimenti per lo sviluppo del Paese, per i quali bisogna far emergere il sommerso piuttosto che aumentare il debito pubblico.
Giorgio Ambrogioni
Presidente CIDA
Abbiamo rinnovato l’appuntamento con l’indagine di “Itinerari Previdenziali”, presentando nella sede del CNEL a Roma il quinto rapporto lo scorso 18 settembre, perché ragionare di redditi, di pensioni e di imposte vuol dire ragionare sul rapporto fra Stato e cittadini. Su quel ‘patto sociale’ che è alla base delle moderne democrazie. Un’indagine ricca di dati che ci consentono di comprendere meglio l’effettiva situazione socio-economica del Paese, fornendoci una visione prospettica, evidenziando criticità e malfunzionamenti che ne compromettono la competitività e indicando anche le soluzioni praticabili.
L’obiettivo è fornire una chiave di lettura di temi quanto mai complessi e delicati: equità e pressione fiscale, modalità di finanziamento del welfare italiano e il reperimento delle risorse da destinare allo sviluppo del Paese. I dati forniti dal Centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali hanno delineato un quadro di riferimento, fornendoci le cifre di un sistema di finanziamento del welfare che sappiamo ormai ai limiti. Gli spunti di riflessione emersi costituiranno elemento di valutazione dei policy makers e rappresentanti di politica e istituzioni per governare il Paese verso la concreta Equità e lo Sviluppo a beneficio dell’intera collettività.
In Italia, sono in attività poco più di 800mila manager fra dirigenti e quadri apicali, ai quali si aggiungono quasi un milione di manager pensionati. Un milione e 800 mila persone che nel 2016 hanno versato circa 50 miliardi di tassazione IRPEF su un totale di 163,4 miliardi di gettito nazionale pari a 172,75 miliardi al lordo del bonus di 80 €. Quindi il 3% della popolazione costituita da manager ha versato il 30%. Uno squilibrio evidente che sta a dimostrare l’incongruenza di un fisco sempre più ‘concentrato’ sui percettori di reddito fisso: lavoratori dipendenti e pensionati. I manager versano mediamente 25.000 € l’anno rispetto a 6.672 € dei lavoratori autonomi che scendono a 1.480 € l’anno considerando anche quelli con certificazioni di lavoro autonomo, provvigioni e redditi diversi. Cresce l’area dell’evasione e dell’elusione fiscale come dimostrano i dati dei nove anni dal 2008 al 2016 nei quali: è aumentata di un milione e mezzo la popolazione, sono diminuiti di un milione i dichiaranti di reddito, sono diminuiti di 300 mila i versanti IRPEF, sono aumentati di mezzo miliardo i versamenti IRPEF, aumentati di oltre 3,6 miliardi i versamenti per addizionali regionali e sono aumentare di oltre 1,7 miliardi le addizionali comunali. Un milione in meno di dichiaranti e sei miliardi di tasse in più; l’indagine conferma i dati degli anni precedenti: a contribuire sempre più sono i soliti, mentre aumentano gli evasori.
I dati dimostrano che troppo pochi pagano le tasse; da un lato è cresciuta l’area dell’esenzione e delle agevolazioni fiscali legate al reddito, spesso motivate da clientele e favoritismi elettorali, e dall’altra sono aumentate evasione ed elusione fiscale. È evidente che stando così le cose, le risorse per il welfare ‘allargato’ sono sempre meno e finiscono con l’essere prelevate in misura crescente laddove è più facile reperirle. Ovvero nel lavoro dipendente e nelle pensioni in cui i redditi dichiarati sono certificati dal sostituto d’imposta. Un sistema perverso che non solo ‘incentiva’ a dichiarare il meno possibile per versare meno tasse e godere di una più vasta offerta di servizi sociali legati al reddito, ma che colpisce in modo progressivo stipendi e pensioni medio-alte impoverendo il ceto medio e livellando verso il basso il tenore di vita. A questo scenario vanno poi a sommarsi ulteriori provvedimenti ‘punitivi’, grossolanamente mascherati da interventi di equità. Mi riferisco alle cosiddette ‘pensioni d’oro’ sacrificate sull’altare della propaganda politica, che invece trascura il vero ‘tesoro’ costituito dai 130 miliardi di evasione fiscale, con un mancato gettito di oltre 30 miliardi l’anno. Di fatto con l’attuale sistema, chi è in regola con il fisco finisce, inevitabilmente, con il sostenere finanziariamente il welfare di chi non versa come e quanto dovrebbe. E il combinato disposto dell’imposizione sui redditi da lavoro dipendente e da pensioni, con l’attuale sistema di aliquote e scaglioni, sommato alle sacche di elusione ed evasione, secondo la ricerca di Itinerari Previdenziali, fornisce un quadro insostenibile della fiscalità italiana. Ma la rivendicazione di categoria che rappresentiamo è solo la cartina di tornasole di un sistema che non regge più e il cui malfunzionamento, dimostrato ancora una volta da Itinerari previdenziali, mina alla base lo Stato sociale che conosciamo e che l’Italia ha costruito un pezzo alla volta, dal dopoguerra ai giorni nostri. Come è possibile, infatti, che i circa 400mila dirigenti (pubblici e privati) che rappresentiamo e che percepiscono una retribuzione netta compresa tra i 3mila ed i 5 mila euro al mese, siano la maggioranza dei contribuenti appartenenti alle classi di reddito più elevate, quando consultando i documenti dell’Aci, dell’Agenzia delle Entrate e del Registro navale si evince che: le autovetture di grossa cilindrata, cioè oltre i 2.500 cc, sono quasi un milione e mezzo; almeno un milione di italiani soggiorna ogni anno negli alberghi a 5 stelle e di lusso; le abitazioni di pregio, cioè ville e villini, iscritte nei registri catastali superano i due milioni; nelle capitanerie di porto risultano iscritte 80mila imbarcazioni di almeno 10 metri di lunghezza. E l’elenco potrebbe continuare se ci soffermassimo sul divario fra gli indici del tenore di vita ed i dati del fisco.
Siamo in una situazione difficile che dovrebbe essere palese ai decisori politici e alle istituzioni: il solo gettito dell’IRPEF è insufficiente a coprire le spese di sanità e assistenza. Nel 2016 sono venuti a mancare una quarantina di miliardi, cinquanta se si considera la restituzione del bonus di 80 euro. Come si finanzierà un welfare sempre più ‘allargato’? Come si potranno pagare le pensioni assistenziali ai circa 10 milioni di soggetti che non dichiarano nulla ai fini IRPEF?
Un recente studio dell’Università Cà Foscari che ha analizzato i dati delle dichiarazioni dei redditi e la relativa evasione, ha stimato una perdita di gettito superiore ai 38 miliardi l’anno: ben più di quanto, faticosamente, stanno tentando di mettere insieme al ministero dell’Economia per la manovra di fine anno. Bene ha fatto il ministro dell’Economia, Tria, ad indicare la revisione delle detrazioni ed agevolazioni fiscali oggi esistenti, come base di partenza del finanziamento pubblico.
Cercheremo di far prevalere la concretezza dei numeri sia di fronte alle fughe in avanti, sia nei casi di pavidi dietrofront. E di cifre il rapporto di Itinerari Previdenziali ne fornisce numerose. Se consideriamo gli scaglioni di reddito più elevati, dai 55mila euro lordi fino ai 300mila euro lordi, si scopre che il 4,36% dei contribuenti paga il 36,5% di tutta l’IRPEF. E paga per tutto l’arco della vita lavorativa e continua a pagare da pensionato, finanziando tutto il welfare, anche di chi non ha versato imposte e/o contributi. Il rapporto di Itinerari Previdenziali ci dimostra che il sistema è al limite, perché non riusciamo più a sostenere il sistema delle prestazioni sociali né, tantomeno, a reperire le risorse necessarie agli investimenti ed allo sviluppo del Paese. Noi, da parte nostra, non possiamo non denunciare l’ennesimo tentativo di drenare risorse dalle pensioni medio-alte verso le casse dello Stato. E per dare una veste di legittimità ad un provvedimento palesemente iniquo, si è inventato lo slogan delle 'pensioni d’oro'. Eppure i numeri ci offrono uno scenario diverso. In un articolo per Famiglia Cristiana, l’economista Luigino Bruni ha affrontato proprio questo tema: “Se oggi guardiamo chi sono i veri ricchi, i lavoratori sono molto pochi, abbiamo soprattutto percettori di rendite, nelle sue varie forme. E le rendite non sono né salari, né profitti, né pensioni.
Se il governo vuole colpire le rendite non deve penalizzare le pensioni, perché il 90% di quelle che vengono chiamate 'pensioni d’oro' sono legate al lavoro. E perché buona parte dei veri ricchi non ricevono 'pensioni d’oro' perché hanno trasferito la residenza all’estero, sono ‘elusori’ o evasori totali, e alcuni non hanno mai lavorato veramente. I redditi d’oro non prendono quindi la forma delle pensioni e non sono certo quelle che si aggirano attorno ai 4.000 euro al mese. Le pensioni da lavoro vanno rispettate come si deve rispettare il lavoro che le ha generate”.
Su tutti questi temi abbiamo chiesto al Governo un confronto approfondito, sereno, non ideologico: per dimostrare, ancora una volta, il valore del merito e della certezza del diritto per la società, e che siamo una parte sociale che fa del senso di responsabilità e contributo concreto alla collettività (partendo dai 50 miliardi di IRPEF versati ogni anno) uno dei suoi valori di riferimento.