Il lavoro all’estero e il rischio della doppia imposizione

Quando un’azienda invia dei dipendenti all’estero, o lo stesso dipendente viene assunto direttamente presso una società estera è molto concreto il rischio della doppia tassazione in capo ai lavoratori, che sono potenzialmente esposti a tassazione sia in Italia, loro Paese di residenza, sia nel Paese estero ove viene svolta fisicamente l’attività (in quanto la maggior parte degli Stati riconduce a tassazione il reddito di lavoro dipendente prestato nel proprio territorio), salvo il riconoscimento in Italia del credito di imposta per le imposte pagate a titolo definitivo all’estero.

Nicola Fasano

Avvocato tributarista in Milano

In linea di principio, il reddito di lavoro dipendente viene tassato in primo luogo nel Paese dove è svolta l’attività lavorativa a prescindere dal “titolo” sulla base del quale il dipendente è inviato all’estero (trasferta, distacco, localizzazione).
Pertanto, al fine di prevenire la doppia imposizione, che comunque spesso espone l’azienda e/o il lavoratore sotto il profilo finanziario, fino a quando non vi saranno i presupposti per il recupero del credito di imposta, si dovrebbe valutare, innanzi tutto, se sussistano le condizioni per considerare fiscalmente non residente in Italia il dipendente. In tal caso, sotto il profilo fiscale, verrebbe meno la tassazione (anche) in Italia del reddito prodotto all’estero. Perché si verifichi una simile situazione, ovviamente, sarà necessario che le condizioni dettate dall’art. 2 del testo unico delle imposte sui redditi – c.d. Tuir - (secondo cui sono definiti i criteri sulla base dei quali le persone fisiche sono considerate fiscalmente residenti in Italia) non sussistano per la maggior parte del periodo di imposta e dunque, se parliamo di cittadini italiani, che l’iscrizione all’AIRE e, in ogni caso, l’assegnazione all’estero siano perfezionate entro la prima metà dell’anno, non potendosi “spaccare” in due, quanto  meno sulla base della normativa interna, il periodo di imposta.
È ovvio, tuttavia, che se si tratta di dipendenti che abbiano rilevanti interessi in Italia (ad iniziare da quelli familiari, come per esempio il coniuge che resta in Italia) che fanno ivi permanere il “domicilio”, in ogni caso, saranno considerati fiscalmente residenti in Italia e dunque ivi assoggettati a tassazione su tutti i redditi ovunque prodotti.
Altro caso in cui potrebbe essere scongiurata la doppia tassazione potrebbe essere quello dell’assegnazione in Paesi che non prevedano una imposizione sulle persone fisiche (come alcuni Stati del Golfo Persico).
Venendo meno anche questa ipotesi, non resta che verificare l’applicabilità dell’art. 15, par. 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni eventualmente stipulata fra Italia e Paese estero.
Se infatti, in tema di redditi da lavoro dipendente il Modello OCSE (sulla base del quale vengono stipulate le singole Convenzioni contro le doppie imposizioni fra due Stati contraenti) prevede all’art. 15, par. 1, come principio di carattere generale la tassazione (anche) nel Paese di svolgimento dell’attività, il par. 2 detta le stringenti condizioni in presenza delle quali può essere riconosciuta l’esenzione da tassazione nello Stato in cui è svolta l’attività.
In sintesi, è riconosciuta l’esenzione quando concorrono le seguenti condizioni:
a) l’attività nell’altro Stato non è svolta per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi;
b) le remunerazioni sono pagate da o per conto di un datore di lavoro che non è residente nell’altro Stato;
c) l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nell’altro Stato.
La finalità della norma è quella di escludere da tassazione i redditi derivanti da attività di lavoro dipendente di breve durata nei limiti in cui tali redditi non siano ammessi in deduzione, come costi, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, nello Stato in cui si svolge la prestazione lavorativa, poiché il datore di lavoro non è ivi residente e comunque non vi ha una stabile organizzazione.
Con riferimento alla prima condizione, di cui alla lettera a), relativa alla presenza del lavoratore, va evidenziato che nelle convenzioni più risalenti la stessa è circoscritta a 183 giorni nell’arco di un periodo di imposta, il che, evidentemente potrebbe accordare l’esenzione anche in caso di assegnazione, a cavallo di due periodi di imposta, della durata complessivamente superiore a 183 giorni (per esempio dal 30 agosto 2017 al 1º giugno 2018).  Ciò detto, è agevole rilevare come ai fini della esenzione “da convenzione” debba ricorrere, oltre che una assegnazione di “breve periodo”, anche la circostanza che, in linea di principio, il dipendente non sia pagato in loco e dunque, nei casi di distacco fra aziende facenti parte del medesimo gruppo, continui ad essere pagato dalla “casa madre” senza che questa riaddebiti poi il relativo costo del lavoro alla consociata che dovesse beneficiare della prestazione lavorativa.
Ciò in quanto, in ambito internazionale e soprattutto alla luce delle interpretazioni rese in tal senso in sede OCSE, la condizione di cui alla lettera b) che precede non ricorre anche quando il dipendente, pur se formalmente pagato dalla società “distaccante”, riaddebita poi i relativi costi alla locale “distaccataria” in quanto, nella sostanza, è quest’ultima che, di fatto, sostiene il relativo costo.
Da ultimo, deve segnalarsi che nei casi in cui si verifica il fenomeno della doppia imposizione l’azienda e/o il dipendente determina la base imponibile fiscalmente rilevante non sulle retribuzioni effettivamente percepite ma sulle retribuzioni cosiddette “convenzionali” (solitamente più basse di quelle effettive, stabilite annualmente di concerto fra il Ministero del Lavoro e quello delle Finanze) sempre che ricorrano le condizioni previste dall’art. 51, c. 8-bis, Tuir. In base a tale disposizione le citate retribuzioni forfettarie si applicano a condizione che il lavoratore svolga l’attività di lavoro all’estero, in via continuativa e quale oggetto esclusivo del rapporto, per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi. In tali casi, peraltro, il credito di imposta spettante per le tasse pagate all’estero, deve essere corrispondentemente riproporzionato secondo quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate con la R.M. 48/E/2013. 



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