La transizione digitale delle organizzazioni e del mercato del lavoro
La transizione digitale, se ben gestita, fa rima con mobilità sociale, merito, sviluppo economico, produttività, innovazione, recupero delle aree interne, parità di genere, inclusione e trasparenza
Nicolò Boggian
Amministratore Whitelibra Srl
Ad oggi, nonostante gli abbondanti fondi del PNRR e le raccomandazioni dell’UE, c’è però un consenso abbastanza generalizzato nel ritenere che l’Italia sia in ritardo.
In particolare questo ritardo è pronunciato su competenze digitali e lavoro, come mostrano i risultati nell’indice Desi e il basso utilizzo di AI da parte delle aziende italiane. Il problema non riguarda solo PMI e Pubblica Amministrazione, dove è sicuramente più sensibile, ma tutta la struttura produttiva e il mercato del lavoro.
Cos’è allora la transizione digitale del lavoro? Passare le giornate in video call, digitalizzare ferie e permessi, pubblicare post sui social o molto di più?
Transizione digitale del lavoro non significa solo che le aziende e la PA siano utilizzatori di AI e tecnologia digitale, ma invece che istituzioni, organizzazioni e mercato del lavoro si riorganizzino intorno alla tecnologia digitale e all’AI e ne diventino sempre più produttori consapevoli e non solo consumatori passivi.
Per accelerare la trasformazione digitale serve allora una classe dirigente che sappia pensare il futuro del lavoro come prima digitale e poi fisico, e sappia interpretare l’AI e al digitale come il nuovo alfabeto per regolare e accompagnare il cambiamento del Lavoro, pubblico e privato. Come?
Due sono i punti di frontiera da considerare e in grado di incidere significativamente su produttività, innovazione ed inclusione, oltre a dare ordine e trasparenza al mercato del lavoro:
- AI ed algoritmi guideranno le scelte organizzative che impattano sulla composizione dei team di lavoro, sulla definizione di obiettivi e budget, sull’acquisto di servizi e sulle scelte di carriera e di apprendimento degli individui;
- queste scelte potranno scavalcare in modo ordinato limiti geografici, temporali, spaziali, aziendali ed organizzativi, mettendo al centro le persone e le loro competenze.
Questi elementi comportano quindi un ridisegno del sistema di prassi, regole e servizi del mercato del lavoro che avrà impatto su filiere produttive, incentivi economici, gruppi di interesse, rimodulando l’organizzazione del lavoro e l’organizzazione sociale, le abitudini, i rapporti tra territori e gli stili di consumo. L’ambito di intervento è quindi vasto ed articolato e comprende una serie di soggetti e azioni.
Le parti sociali devono agire su contratti di lavoro e struttura dei settori
Nuove aziende e una nuova cultura del lavoro in cui diminuiscono i vincoli di tempo, spazio, mansioni e settore mal si conciliano con l’attuale struttura dei contratti collettivi e dei settori produttivi (basti pensare agli 800 CCNL e alle migliaia di enti bilaterali, fondi interprofessionali, fondi sanitari).
È in corso su questo punto un faticoso processo di aggiustamento con qualche passo avanti (addendum ai contratti collettivi) e passi indietro (chiusura di Confindustria Digitale). Nuovi contratti a tempo indeterminato più “smart” (con un diverso rapporto tra autonomia e subordinazione), per un settore trasversale di “aziende piattaforma”, possono contribuire a consolidare una nuova struttura del lavoro, caratterizzata da una maggiore autonomia, responsabilità, benessere e aggiornamento continuo delle competenze.
Questa struttura a sua volta faciliterà la fluidità dei processi organizzativi, la diffusione di nuove opportunità e l’efficientamento dei servizi di welfare, assistenza e formazione di settore.
Le aziende, in particolare Startup e PMI, dovrebbero condividere “in condominio” la gestione HR e i dati del lavoro.
Le piccole aziende, specialmente nel settore digitale, non possono sviluppare tecnologia e competenze per creare valore su scala globale se non si coordinano tra loro e non si aggregano in unico settore. Per farlo devono condividere investimenti e integrare tra di loro la gestione delle risorse umane, anche con formule collaborative inedite in cui mettere in comune dati, competenze e servizi.
Molti network ed ecosistemi collaborativi sono nati con questo presupposto, ma poi le sinergie si fermano spesso agli aspetti di comunicazione e di investimento finanziario, senza invece considerare la gestione del personale, delle competenze e dei bisogni sociali.
La collaborazione tra aziende non si può fermare infatti ad un confronto fra gli imprenditori e il management ma deve arrivare ad un maggiore grado di granularità e integrazione fra team e progetti.
Le grandi aziende e la PA devono aggiornare la struttura degli appalti e i propri modelli organizzativi.
Le grandi aziende e la PA sono la fonte del mercato. Per contribuire alla transizione digitale devono rivedere la loro struttura organizzativa presidiando in modo innovativo tutta la propria filiera produttiva.
La rigida struttura per funzioni e livelli genera infatti colli di bottiglia, insoddisfazione e una forte resistenza al cambiamento.
Gli appalti, l’open innovation, la struttura dei bandi e le operazioni straordinarie inoltre vengono troppo spesso utilizzati per delegare il processo di trasformazione digitale impedendo un aggiornamento tempestivo del sistema di competenze interne. Gli effetti di questa scarsa dinamicità ed innovazione nella struttura organizzativa interna e degli appalti condizionano negativamente il “mercato esterno”, fornendo pochi incentivi all’innovazione e impedendo il giusto controllo degli effetti sociali ed organizzativi della transizione.
Le grandi aziende e la PA hanno invece tutto l’interesse di guidare e sviluppare vasti ecosistemi digitali con dinamiche collaborative di filiera e strumenti di programmazione e controllo degli impatti su territorio e mercato del lavoro.
Le istituzioni centrali e locali devono rivedere normativa del lavoro e sistema di incentivi.
La maggior parte delle strutture organizzative, delle normative sul lavoro, dei procedimenti autorizzativi, concorsuali e di appalto delle istituzioni sono pensati ancora in una logica pre-digitale. Da questo si origina una distorsione del mercato e paradossalmente un’offerta di tecnologia per semplificare la burocrazia che drena alcune risorse da investimenti tecnologici nella vera transizione digitale del lavoro.
La normativa di diritto del lavoro, l’impianto di politiche attive e di incentivi, visti i risultati non del tutto sufficienti, andrebbero invece semplificati e armonizzati con la tecnologia. In questo modo aziende, parti sociali e cittadini potrebbero ricevere un supporto concreto risparmiando tempo oggi assorbito in attività burocratiche e amministrative.
La struttura delle istituzioni deve passare da una logica verticale ad una logica ad arcipelago integrando organizzazioni pubbliche e private tramite forme di partenariato, incentivi automatici e programmi di lavoro comuni in modo da massimizzare interoperabilità e snellezza operativa.
Ripartire dagli strumenti
Se quindi l’ostacolo alla transizione digitale sono proprio le organizzazioni, pubbliche e private, e il mercato del lavoro, la leadership politica, amministrativa, sindacale, imprenditoriale e manageriale dovrà intervenire in primis sulle proprie organizzazioni, in modo da massimizzare l’utilizzo delle competenze, gestire meglio la complessità e rendere più flessibili e reattive strutture e processi.
Il mercato del lavoro sarà poi da ripensare digitalmente con l’obiettivo di migliorare l’organizzazione del lavoro a livello di sistema, non solo di singole aziende (meno ore lavorate, stipendi più alti, meno lavoro di bassa qualità, maggiore diffusione di competenze, diminuzione dello skills mismatch), senza rinunciare alle giuste tutele per le persone.
Un ritardo nell’aggiornamento dell’organizzazione del lavoro, dentro e fuori dalle aziende, è infatti un costo che non possiamo permetterci se oltre ad ostacolare la transizione digitale comporta problemi di occupazione femminile, natalità, risorse PNRR non spese, poche opportunità per i giovani, servizi non adeguati e una generale resistenza all’innovazione.