Calcio di rigore
Come annunciato nell’articolo Premiazione del 4° Concorso Letterario ALDAI pubblicato sul numero di gennaio della rivista Dirigenti Industria, proseguiamo con la presentazione dell’ultimo dei primi tre racconti classificati. Di seguito “Calcio di rigore” di Fulvio Conenna, vincitore del 3º premio.
Fulvio Conenna
Fulvio Conenna, nato a Torino nel 1949, è laureato in Economia e Commercio. In pensione dal 2012, ha svolto buona parte della sua carriera professionale come Direttore Amministrativo di un’azienda multinazionale tedesca in provincia di Torino. È appassionato del mondo dei passatempi di matematica ricreativa e dei giochi di logica. Negli ultimi anni ha coltivato la passione della scrittura: ha pubblicato due libri e ha ottenuto numerosi premi in concorsi letterari.
"Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…”.
O forse era solo un arrivederci. Non a quelle montagne lì, del Manzoni, ma alle sue, quelle piemontesi.
Così pensava Allegra in uno di quei momenti, non infrequenti, in cui la sua formazione scientifica concedeva spiragli all’amore per la letteratura e i grandi libri. In fondo, si sentiva un po’ Lucia, guardando la catena di vette imbiancate che facevano da corona alla sua bella città.
Chissà quando l’avrebbe rivista, ma ormai la decisione l’aveva presa.
Amava Torino, d’altronde ci era nata. Lì era cresciuta, lì aveva studiato fino ad arrivare alle soglie della laurea breve e lì aveva potuto coltivare la sua grande passione: il calcio. Dai campetti del Valentino, mescolandosi caparbiamente ai maschietti riluttanti ad accoglierla tra le loro fila, fino alle formazioni giovanili di squadre cittadine. Era ormai più di una promessa, anche se giovane, aveva già esordito in prima squadra, nella Antonelliana, non in una qualunque.
Ma due cose la inducevano a partire.
Trovare lavoro in quei tempi era difficile anche per un titolare di master universitario. Per una biologa con laurea breve sembrava fossero aperte solo le porte dell’insegnamento, nel migliore dei casi. Il calcio femminile era uno sport dilettantistico e povero, e lei non poteva certo contare sui pochi rimborsi spese per assicurarsi quella tranquillità economica necessaria per rendersi indipendente dalla sua famiglia su cui non voleva più continuare a pesare.
Ma, soprattutto, era la mentalità provinciale che non sopportava più. Quando raccontava che giocava a pallone, la reazione di chi le stava davanti era praticamente un riflesso condizionato. Subito le guardavano le gambe per trovarci qualche ammasso di muscoli ipertrofici magari ricoperto di folta peluria. E poi, immediatamente dopo, passava nel loro cervello l’idea che fosse lesbica. Non un’idea, una certezza. Lei si era ormai abituata a quelle espressioni d’imbarazzato sconcerto o di curiosità pruriginosa, o, perfino, a smorfie di disgusto. Anche se lei di mascolino non aveva proprio nulla, tranne forse la mascella volitiva, tanto quanto il suo carattere. Aveva un viso molto grazioso, due occhi verdi come smeraldo, un fisico leggero adatto alla corsa, con un baricentro leggermente abbassato come riferiva qualche voce invidiosa evitando con sottile perfidia la definizione di culo basso.
E poi a lei i ragazzi piacevano, eccome.
Aveva un ottimo rapporto con le sue compagne di squadra. Una di loro, Daniela, il portiere, era la sua migliore amica e le dispiaceva lasciarla. Con lei amava trattenersi dopo gli allenamenti e si vedevano anche al di fuori del campo di gioco. Erano compagne di stanza nelle trasferte e nelle lunghe notti, quando era difficile addormentarsi prima di una partita importante, si scambiavano le loro confidenze, aprivano il loro animo alle confessioni dei loro primi sussulti di cuore.
E proprio Daniela l’aveva avvertita che l’allenatore aveva verso di lei un interesse che non era solo sportivo. Allegra all’inizio non ci voleva credere, ma poi dovette ammettere che effettivamente Giorgio, così si faceva amichevolmente chiamare dalle sue giocatrici, le riservava qualche attenzione non proprio professionale. Ma lo faceva in modo molto discreto sia perché al di fuori del rettangolo di gioco era un giovane timido e schivo, ma soprattutto perché, si sa, che per un allenatore è assolutamente proibito approfittare della sua posizione in quelle questioni. Giorgio era un ragazzo non molto più vecchio dell’età media delle giocatrici; era laureato in Scienze Politiche e come tale destinato a ingrossare le fila dei disoccupati. Grazie al suo passato di buon giocatore di seconda categoria era riuscito a prendere il patentino di allenatore. Con i pochi soldi che guadagnava cercava di cavarsela, sbarcando il lunario in attesa di un lavoro vero.
Allegra decise di ignorare le sue educate avances, anche se un po’ a malincuore. Mettersi con lui cozzava con i suoi principi etici. Non poteva permettere che una relazione del genere influenzasse le gerarchie all’interno della squadra o perlomeno che qualcuno potesse pensarlo. Peccato, perché era attratta da quel ragazzo carino così a modo, lontano dagli stereotipi del “Mister” sergente di ferro. Aveva l’hobby della letteratura e lo sguardo trasognato del poeta bohémien. Era rispettato dalle ragazze anche se faceva fatica a domare la loro giovanile esuberanza. Uno dei loro divertimenti era quello di assistere al suo impaccio quando un po’ perfidamente organizzavano nello spogliatoio teatrini velatamente provocatori.
In altre circostanze sarebbe potuto nascere tra loro qualcosa di serio.
Quando lei gli riferì della sua decisione di lasciare la squadra, lesse nei suoi occhi un dispiacere autentico.
A Francoforte le avevano promesso, appena ottenuta la laurea breve in Italia – le mancavano oramai pochi esami – una borsa di studio per uno stage con possibilità di successiva assunzione part-time al Max Planck Institut e un ingaggio nella squadra di prima divisione di calcio che ogni anno se la giocava per lo scudetto. Il campionato tedesco era forse il più importante d’Europa, l’offerta era impossibile da rifiutare. D’altronde sua madre aveva origine tedesche e lei conosceva perfettamente la lingua.
I suoi non l’avevano presa tanto bene. Avrebbero accettato anche di buon grado la sua intenzione di andare a vivere da sola, intenzione che la ragazza, animata da quel temperamento risoluto e indipendente, aveva da tempo manifestato, ma lasciare la loro unica figlia andar via come un’emigrante in cerca di fortuna procurava loro dolore. Giocare a pallone non era certo quello che avevano sperato per il suo futuro.
Fino a quel momento, Allegra non aveva viaggiato molto al di fuori dei confini nazionali. Quando arrivò all’aeroporto di Francoforte fu sbalordita dall’enormità della struttura. Quella ragnatela di piste che s’intersecavano ortogonalmente sembravano braccia di cemento che avvolgevano una caotica piccola metropoli abitata da viaggiatori desiderosi di attenzioni o di distrazioni per sconfiggere la paura di volare.
E anche la città era imponente, piena di grattacieli e di negozi eleganti. Da un lato le ricordava un po’ Torino, con circa lo stesso numero di abitanti, entrambe sedi di un’importante fiera del libro e di un altrettanto importante salone dell’automobile e con comuni riferimenti storici, quali ad esempio essere state le città sedi del primo parlamento nazionale. Ma per altre cose le differenze erano profonde, essendo la città tedesca la capitale finanziaria del Paese con un substrato sociale molto più multiculturale e dinamico. Ideale quindi per accettare senza pregiudizi di sorta una ragazza dalle gambe muscolose che faceva uno sport da maschi.
Non ebbe difficoltà a trovare casa, affittò un piccolo appartamento nei pressi del campo di allenamento non troppo distante dall’istituto dove sarebbe andata a lavorare. Il suo perfetto accento tedesco aveva prevalso sui dubbi del locatore quando aveva letto il suo nome italiano, Allegra Roletto.
Venne accolta benissimo dalle sue nuove compagne di squadra e non fece fatica a integrarsi. Si rese conto rapidamente della differenza con l’Italia per i sistemi di allenamento e di conduzione manageriale della società. D’altronde in Germania tutto sembrava essere perfettamente organizzato, tutto funzionava bene, i pubblici uffici erano efficientemente al servizio del cittadino.
Le concessero i permessi necessari per completare gli studi in Italia e nel giro di pochi mesi poté entrare, laurea alla mano, a lavorare presso il prestigioso istituto tedesco. Liberata da impegni scolastici, riuscì ad allenarsi con più continuità e presto le sue potenzialità esplosero. Già a metà del campionato divenne titolare fissa e beniamina dei tifosi. Giocava all’attacco e le sue capacità di finalizzatrice in area di rigore richiamavano nomi prestigiosi di affermati colleghi del calcio maschile. Il rapporto con l’allenatore era molto diverso da quello con il dolce Giorgio. Lì aveva trovato un omaccione torvo e indisponente che dirigeva la squadra come un rigido generale prussiano.
Grazie anche al suo aiuto, la squadra vinse il campionato nazionale. Tutto sembrava andare per il meglio alla brava Allegra: era anche stata confermata al Max Planck come addetta alle attività di laboratorio. Solo un velo di nostalgia di casa intristiva un po’ quelle lunghe giornate di ritiro o le cupe serate invernali dove la pur bella Francoforte non sapeva rivaleggiare con il fascino della sua Torino. Le mancava Daniela, l’amica del cuore con cui confidarsi, e anche se faceva fatica ad ammetterlo, qualche pensiero di troppo andava al giovane allenatore di cui aveva ancora negli occhi l’espressione trasognata da personaggio di romanza schubertiana, ma soprattutto quella affranta di quando gli aveva annunciato la sua partenza. E poi le mancava la spensieratezza delle squadre torinesi dove si era fatta le ossa, dove l'allegria e lo spirito goliardico prevalevano sull’ossessione del risultato.
Ma non c’era tempo per il rimpianto, il nuovo campionato era alle porte e quest’anno ci sarebbe stata anche la Champions. Allegra era un po’ preoccupata, gli impegni su più fronti stavano diventando gravosi, ma lei non voleva lasciare l’attività di biologa che le stava dando anche buone soddisfazioni.
Non ci volle molto per convincersi che le sue apprensioni erano infondate. Anche nel nuovo campionato la squadra continuava a vincere con una superiorità schiacciante, era una vera macchina da gol e lei, Allegra, era diventata oramai la punta di diamante, la capocannoniera della Bundesliga femminile. I primi turni della Champions furono superati con facilità. La sua popolarità cresceva e ormai si occupavano di lei non solo le cronache sportive di settore, ma anche giornali a diffusione nazionale e le riviste patinate. Raccontavano la favola un po’ stereotipata della bella italiana che riesce a integrarsi con successo unendo la genialità creativa della sua terra alla fermezza di carattere derivante dal sangue tedesco che le scorreva nelle vene. Ogni ricerca di gossip non riusciva a trovare sbocchi o evidenze, vista l’assoluta riservatezza della sua vita privata.
Allegra tornava talvolta in Italia per partecipare alle gare della Nazionale di cui era ormai un pilastro, un elemento insostituibile. Aveva così modo di ritrovare le sue vecchie compagne, soprattutto Daniela, e rituffarsi in quel clima di gaia spensieratezza che la pressione della notorietà le aveva sottratto. E riuscì anche a infilarci un paio di appuntamenti con Giorgio che si dimostrarono assai promettenti.
Di successo in successo, la squadra tedesca si era guadagnata la finale della Champions. L’altra finalista era, a sorpresa, proprio la vecchia squadra di Allegra, la Antonelliana. La sede dell’incontro fissata già a inizio stagione era lo stadio delle Alpi di Torino. Essendo una finale, l’incontro si sarebbe disputato in una partita secca.
I giorni che precedettero la gara furono difficili. Allegra decise di restare con la sua squadra e di non avere contatti con le sue ex compagne. In quei giorni, loro erano rivali e perciò nemiche, anche se solo sportivamente, e non voleva distrazioni che potessero deconcentrarla: quel convincimento doveva prendere pieno possesso, seppur transitorio, dei suoi pensieri.
La partita si svolse in un caldo e assolato pomeriggio di maggio. I grandi viali di Torino erano nel pieno della fioritura e un profumo di primavera si spargeva nell’aria.
La squadra italiana impresse subito alla gara un ritmo elevato e mise in difficoltà le tedesche con un pressing asfissiante. Riuscirono anche a portarsi in vantaggio con un bel gol proprio della giocatrice svedese che in quella stagione aveva sostituito Allegra nel ruolo di centravanti.
Allegra si rendeva conto che la sua squadra era bloccata, forse l’emozione di una finale così importante intorpidiva i muscoli delle pur fredde tedesche. All’intervallo l’allenatore diede una solenne strigliata alla squadra. Il secondo tempo continuò sulla falsariga del primo, ma, dopo un quarto d’ora, le cose cominciarono a cambiare. Le tedesche presero man mano la supremazia del gioco e iniziarono a portare attacchi sempre più pericolosi. Le italiane sembravano stanche, stremate dalla quantità di energie consumate nella prima parte di gara. La partita divenne a senso unico. Allegra e compagne assaltavano l’aria di rigore delle avversarie chiuse ormai in una difesa strenua e disperata. Ma una serie di avversità impediva loro di riportarsi in parità. Era un susseguirsi di pali, traverse, parate miracolose di Daniela, palle che danzavano sulla riga di porta ma che rifiutavano di superarla. Anche qualche decisone un po’ casalinga dell’arbitro francese mise lo zampino per favorire le italiane.
Si era ormai arrivati alla fine della gara. Mancavano pochi minuti e le bianconere dell’Antonelliana avrebbero inaspettatamente alzato al cielo il prestigioso trofeo.
Allegra capì che era venuto il suo momento. Si fece dare la palla appena oltre metà campo e con uno scatto superò due avversarie. Ai limiti dell’area triangolò con una compagna che le ridiede il pallone vicino al dischetto del rigore. Allegra alzò la testa e vide solo due maglie juventine che la separavano dalla porta. Le scartò entrambe e si presentò davanti a Daniela. Si guardarono come due sconosciute, due attrici calate in un personaggio di una sceneggiatura che le voleva nemiche, in una dimensione dove la finzione si sovrapponeva a ogni centimetro di realtà.
Daniela uscì alla disperata travolgendo Allegra che stava ormai per calciare a colpo sicuro. Calcio di rigore netto, indiscutibile. Nemmeno una protesta dal campo e dalle tribune. Daniela si avvicinò alla sua avversaria che, terminato l’incantesimo di quel sabba sportivo, era tornata a essere l’amica del cuore, per soccorrerla.
Allegra sentiva un forte dolore alla caviglia. Faceva fatica a rialzarsi ma sapeva che le compagne facevano affidamento su di lei per completare il capolavoro di cui nei giorni successivi avrebbero parlato tutti i giornali, paragonandola alle leggende del calcio maschile. Con quel gol sarebbero andate ai supplementari, ma visto le condizioni delle due squadre, non c’era alcun dubbio che la vittoria se la sarebbero portata a casa le tedesche e lei avrebbe scritto una pagina di storia sportiva.
Nessun dubbio: tirare il rigore spettava ad Allegra.
In uno stadio completamente ammutolito, Allegra sistemò con cura la palla al centro del dischetto. Una voce dagli spalti gridò: “Allegra, arcorda ch’etses ad Turin”.
La ragazza si guardò intorno. Appena oltre i muri dello stadio, la sua città chiusa dentro le più vaste pareti di quelle meravigliose montagne, pulsava ignara di quel dramma sportivo. Le italiane erano sdraiate sul terreno quasi tutte piangendo. Giorgio, l’allenatore, si teneva la testa tra le mani. Lanciò solo uno sguardo duro ad Allegra, quasi sprezzante, pieno della delusione di chi è stato offeso nei suoi affetti più cari. Poi si girò dando la schiena al campo rifiutando di guardare la presumibile fine di quell’avventura. Daniela, ferma in mezzo alla linea di porta, la fissava come a mandarle un messaggio noto solo a loro due.
Allegra si allontanò dal dischetto per prendere la rincorsa. Il tiro fu teso e angolato ma Daniela, tuffandosi in anticipo sulla sua destra, riuscì con la punta dei guantoni a deviare il pallone evitando che finisse in porta.
Dopo una frazione di secondo d’incredulità, dagli spalti arrivò un’ondata di tripudio che scosse le gradinate.
Un nugolo di maglie bianconere attorniarono Daniela in una esplosione di entusiasmo.
I restanti minuti di partita non portarono ad alcun cambiamento. La Antonelliana aveva vinto la Champions League femminile.
La cronaca della partita per la sua importanza e per il pathos che aveva caratterizzato le fasi finali trovò molto spazio sui giornali non solo sportivi. Solo pochissimi articoli avanzarono il sospetto che Allegra nel momento di calciare il rigore fosse stata condizionata dall’amore per la sua città natale e dall’attaccamento alle sue ex compagne. Anche negli spogliatoi, nonostante la delusione per la sconfitta, nessuno osò accusare Allegra. Nessuno, tranne l’allenatore tedesco che la prese da parte e la minacciò apertamente di pesanti provvedimenti per comportamento antisportivo.
“Ho visto il tuo gesto, prima di calciare il calcio di rigore ti sei toccata l’orecchio sinistro dando l’indicazione alla tua amica Daniela di dove avresti tirato. Sei furba ma a me non la fai, li conosco questi trucchi, andremo a fondo, questo potrebbe essere la fine della tua carriera”.
L’allenatore aveva ragione. Era quello il segnale che, quando erano compagne, Allegra dava a Daniela per suggerirle da quale parte buttarsi quando doveva parare un calcio di rigore di un avversario.
Allegra avrebbe dovuto preoccuparsi, sarebbe potuto nascere uno scandalo e lei costretta a pagare a caro prezzo quella sua decisione.
Ma nulla di ciò avvenne. Forse perché Allegra, all’indomani, fece recapitare all’allenatore una busta contrassegnata dal marchio dell’istituto Max Planck. Conteneva delle analisi di laboratorio intestate a numerose giocatrici della squadra tedesca con molti dati marcati da asterisco. Quelli che registravano il superamento dei parametri biofisici per l’assunzione di sostanze proibite.