Lo skyline del Paradiso
di Marco Vezzani
Marco Vezzani, Ancona (1949) laureato in Ingegneria è attualmente Presidente Federmanager Liguria e Vice Segretario generale sindacato europeo manager (CEC). Ha ricoperto vari incarichi manageriali in Italimpianti, Finmeccanica, Poste Italiane, fino a diventare AD di una società del Gruppo FIAT. È stato inoltre vice presidente CIDA, consigliere CESE, consulente di imprese pubbliche e private e consigliere comunale a Genova. Ha pubblicato vari libri e romanzi: “Nicivù”, liberamente basato sulla costruzione di un grande impianto siderurgico in Russia, “Su cantiam l’ideale” che parla dell’involuzione della vita sociale e politica nel nostro paese, “Miami? Si ti amo” racconto dell’amore complesso per gli Stati Uniti, “Fabbrica di fabbriche” storia dell’Italimpianti ed “Europa sì, ma…” che parla di come si debba ancora credere nell’Europa.
Improvvisamente, la Signora Anna si era trovata di fronte a quel cancello semiaperto e arrugginito che tante volte aveva varcato prima da ragazza con il suo fidanzato, poi sempre con lui diventato suo marito, poi ancora con i figli e i nipoti.
Dietro partiva il sentiero che si arrampicava pigro e silenzioso su per la collina abbandonando e lasciandosi indietro il quartiere popolare abbarbicato a nord della città e sempre battuto dalla tramontana, le case anonime, il fiume; ma era possibile chiamare fiume quell'ammasso di pietre e sporcizia che diventava ogni tanto un mostro gonfio di fango e capace di divorare ogni cosa?
Anna era persa nei ricordi, recenti e dolorosi, antichi e felici e per questo ancora più dolorosi; ma quando aveva varcato l'ultima volta quel cancello? Non doveva essere passato molto tempo, ma sembrava un'eternità; ora ricordava: si parlava di un virus misterioso, e suo marito, un po' spavaldo e superficiale come sempre, lo aveva definito un'influenza un poco fetente, nel suo slang che tradiva le origini terrone; poi il discorso era scivolato via, leggero come le nuvole che attraversavano veloci il cielo di febbraio; i nipoti, la pensione che non bastava, e la strada che si inerpicava senza affaticare il loro passo di anziani... ecco, lì si erano appartati la prima volta per scambiarsi il primo bacio, un poco più in là si erano spinti molto più oltre e di lì era partito il loro viaggio semplice e felice fatto di piccole gioie e dispiaceri sopportati assieme.
Anna non voleva varcare il cancello, troppo dolore la tratteneva. Ma sentiva che forse lui la chiamava, voleva ripercorrere ancora una volta assieme a lei quei passi interrotti da un fiore da cogliere o una mosca da scacciare. Eccola così salire lentamente, col cuore gonfio di angoscia che le riportava all'improvviso alla mente ciò che ogni giorno cercava di rimuovere dalla quotidianità.
Una prima comunione che non si può rinviare, lei che ha paura e sente come si stia addensando una minaccia oscura e senza nome; i figli che insistono perché ormai al tiggì dicono che il peggio è passato, e poi saremo in pochissimi... e dài mamma, abbiamo anche comprato i vestiti nuovi...
Anche il marito ci tiene: che direbbe mia sorella?... e poi una bellissima giornata quasi estiva, spensierata come da tempo non si ricordava; lui che le parla con un tono di voce che le ricorda quelle prime volte sui prati... come sei bella... ma dài sarà il vino che hai bevuto...
Erano passati pochi giorni, un colpo di tosse; forse il cambio di stagione; un secondo più rabbioso e secco... Anna saliva sempre più affannata e ricordava: la febbre, il medico che non si trova e quando lo trovano li tranquillizza... c'è tanta influenza in giro... ma lei lo sa, lo sente che non è così, e lo sa anche lui che la guarda smarrito e si sente in colpa per non averle dato retta, come sempre.
Il respiro che manca, l'ambulanza, le loro mani che si stringono sull'uscio, un ultimo sguardo a quella casa modesta ma per lui meravigliosa e unica che non sarà più sua; lei finge un sorriso che invece finisce in una smorfia che per fortuna lui ormai non può vedere.
Anna sale lentamente, con un groppo in gola e un corpo sempre più pesante sulle gambe che dolgono, ma non è l'età... sono le giornate d'angoscia passate incredula ad aspettare una telefonata che non arrivava mai e poi una voce che sembrava fosse già stata inghiottita dall'eternità... e infine la telefonata che arriva ma è quella a cui non avrebbe mai voluto rispondere... Anna è quasi arrivata in cima, ma non vede il cielo già pallido che annuncia il tramonto, né i mille particolari della natura che si risveglia... solo uno sfondo opaco nascosto da lacrime che non sa e non vuole trattenere. Come è arrivata quassù? Persa nel dolore non se ne è quasi accorta, eppure, dopo quel tratto finale in lieve pendenza ricorda che lui ogni volta le prendeva la mano e assieme rinnovavano la magia che si presentava ai loro occhi dopo quell'ultima salita...
* * *
Il ragazzo aveva deciso che ne aveva abbastanza di divieti, didattica a distanza, lontananza da tutto ciò che amava: la sua squadra di calcio, il provino che doveva fare con una grande società e che era ormai perso per sempre, quella ragazzina compagna di classe che l'ultimo giorno prima della chiusura forse stava per rispondere al suo timido corteggiamento. Sentiva di essere stato ingannato, dal mondo e dai suoi genitori: finora aveva creduto, o gli avevano fatto credere, che la vita fosse priva di difficoltà, e che ciò che a volte gli raccontavano i nonni, e che peraltro neanche loro avevano vissuto, fossero solo brutte favole raccontate per renderlo, così dicevano, preparato. Ma a cosa?
E allora aveva deciso di uscire sotto il sole primaverile dalla sua bella casa sul mare, da cui vedeva ogni giorno sorgere il sole, di salire sulla collina che si inerpicava fino a mezza costa per poi seguire il sentiero dell'antico acquedotto che tagliava in orizzontale da nord la città fino a ritrovare la "creuza" che tante volte aveva percorso con gli scout; era un tragitto lungo, ma figurarsi se uno come lui, capace di giocare una partita di campionato dopo una giornata trascorsa a scarpinare si spaventava per così poco.
Pensava al suo futuro; come sarebbe stato tra dieci anni? E fra trenta? Ci sarebbero stati ancora incubi come quello che stava vivendo o tutto sarebbe tornato a essere facile e bello come prima? Non riusciva a venire a capo di pensieri sconclusionati che si affastellavano senza ordine alcuno nella sua mente; per un attimo fu tentato di ricorrere al telefonino, unica zattera cui si era aggrappato nei lunghi mesi di clausura, ma oggi non sapeva cosa guardare; la strada gli sembrava infinita come il tempo trascorso lontano dalla sua vita precedente, la solitudine cui non era abituato gli metteva paura; in fondo, si rendeva conto di non essere mai stato solo, prima, mentre ora si accorgeva con orrore che da mesi quello era il suo modo di vivere.
Prese a camminare più svelto, poi a correre, quasi senza rendersene conto; vedeva scorrere i pini marittimi, le case, sentiva un cane abbaiare in lontananza ma in realtà i suoi occhi erano ciechi e la mente girava a vuoto; eppure tutto era così bello, in fondo a quel prato avrebbe potuto...
Fu allora, mentre correva, che gli venne in mente che la maledetta didattica a distanza gli aveva impedito di approfondire se lei... di chiederle se forse... un giorno... Presto sarebbe finito il Liceo, le loro strade si sarebbero divise, lui di qua lei di là... "ma sì ci sentiremo dài, e poi c'è il telefonino!".
Il telefonino. Si fermò di colpo, il cuore in gola e non per la corsa. L'ultima volta le aveva chiesto se le dispiaceva un po' che non si sarebbero rivisti più, che avrebbero interrotto le loro chiacchiere nell'intervallo, la loro complicità di essere così simili e così diversi. Sì ora ricordava; lei gli aveva risposto con un'altra domanda. A te dispiace? E lui, coglione, si era imparpagliato e non aveva saputo rispondere, era un po' arrossito e aveva cambiato discorso. Idiota.
…Il telefonino! Compose il suo numero, sentì la sua voce un po' stupita e la vide con le fattezze storpiate dallo schermino. Le fece ammirare il posto meraviglioso dov'era, il breve tratto ancora da percorrere che sboccava su quello che le diceva essere il più bel panorama del mondo. "Vorresti venirci con me domani", le chiese.
Lei rimase a fissarlo per un istante con i suoi occhi ironici affacciati dal telefonino. "È dal primo giorno di scuola che voglio venirci, stupido....".
* * *
Era passato un mese da quando il titolare lo aveva chiamato nel suo ufficio; Gino sapeva delle difficoltà in cui versava la piccola società in cui lavorava e anche come il Covid avesse reso tutto più difficile, cancellando praticamente le uniche commesse su cui ancora potevano contare; ma non immaginava che tutto ciò spingesse, per ridurre i costi, verso la decisione di licenziare l'unico su cui il padrone potesse davvero contare.
Eppure, erano ormai diversi anni che Gino aveva deciso di rinunciare al comodo e probabilmente eterno paracadute della cassa integrazione nella grande fabbrica in cui lavorava prima e si era gettato in questa avventura, stufo di giocare a carte al bar anziché lavorare. I suoi colleghi cassintegrati a vita glielo avevano detto subito senza girarci tanto attorno che era uno stupido, che era meglio stare lì a contarsela tra di loro e magari fare qualche trasloco, qualche lavoretto in nero quando capitava, e capitava spesso, bisogna dirlo.
Ma Gino aveva tirato dritto, e ora quelli lo guardavano con commiserazione e aria di superiorità, loro che senza la mammella dello Stato non sarebbero stati capaci di non morire di fame.
Licenziato. E col Covid era costretto a girare per casa come un leone in gabbia, e per fortuna che la moglie e il figlio avevano in lui una fede incrollabile, e il ragazzo aveva perfino proposto di rinunciare alla paghetta per contribuire a superare il momento di difficoltà.
A Gino però non bastava; in tempi normali sapeva che un lavoro lo avrebbe già trovato, ma ora non se ne parlava nemmeno. Per fortuna ora lasciavano fare delle passeggiate e lui, nella tradizione di Guido Rossa e di tanti altri operai di mare, amava le lunghe passeggiate sui monti, quelle in cui si saliva lentamente verso la vetta e si guardava la città dall'alto in basso e in cui gli uomini diventavano puntini microscopici e non si distinguevano padroni e operai.
Aveva così imboccato il sentiero dietro le fabbriche e saliva lentamente, con la rabbia nel corpo e nell'anima; si era lasciato alle spalle le casette colorate coi gerani sui balconi abitate dagli operai che non si erano rassegnati ad abbandonare le fasce con le vigne e aveva iniziato a salire. Di colpo sotto di lui gli erano apparse le fabbriche: le riconosceva una a una, quelle chiuse da anni, quelle che sopravvivevano con fatica, le poche che ancora producevano. Viste da lassù sembravano dei mastodonti addormentati, degli animali preistorici che si andavano a guardare al museo, additandoli ai bambini stupiti. Eppure, Gino lo sapeva, lì si erano consumati drammi e intere generazioni di uomini ci avevano lavorato; chissà se avrebbe mai rimesso piede lì dentro, forse neppure gli interessava più. Ora voleva solo salire in cima, scaricare nella salita tutta la tensione, il dolore e la frustrazione; non aveva più mete né obiettivi, se non difendere la sua famiglia e la sua dignità; era quasi arrivato; in basso, il fumo delle poche ciminiere rimaste accese scolorava nel cielo infinito.
* * *
Esmeralda era uscita dal lavoro felice come una bambina; dopo vent'anni di pulizia nelle case e di lavoro in nero, grazie al Covid aveva finalmente trovato un impiego in una RSA abbarbicata sopra il centro storico della città, ed era finalmente stata messa in regola.
Certo il Covid le aveva anche portato via i genitori in Ecuador, ed era stato un dolore immenso, ma lei pensava che era grazie a loro che la proteggevano dal cielo se aveva trovato finalmente un lavoro stabile, dopo anni di grandi umiliazioni e di altrettanto grande dignità.
Era troppo emozionata ed eccitata per tornare subito a casa, e del resto sapeva che proprio dietro alle mura antiche dell'istituto per anziani partiva uno stretto sentiero che le avevano detto arrivava a un panorama mozzafiato sulla città. Lo aveva imboccato senza esitazioni, saliva e cantava, saliva e ripensava ai lunghissimi anni che aveva passato in quella città da quando era arrivata dal suo paese: il lavoro duro, il suo cuore semplice e generoso sempre deluso da uomini senza dignità, la figlia che era nata a seguito di quegli inganni, ma che lei aveva tenuto come un dono di Dio; saliva e cantava sempre più forte, e pensava con orgoglio ai sacrifici fatti per la sua bambina, al dolore per non poterle dire chi era suo padre e perché non stava con lei; pensava a quell'Italia che amava come suo paese e che sembrava non volere quei nuovi cittadini così laboriosi e rispettosi delle leggi. Saliva sempre più leggera e intravedeva giù in basso quella città così simile alla sua da cui erano partiti in tanti come lei per non tornare mai più.
Era quasi arrivata in cima, e tra sé pensava che ne era valsa la pena, che quella salita assomigliava alla sua vita, e che quel panorama che tra poco le si sarebbe parato dinnanzi era il simbolo della sua vittoria sulle avversità della vita. Forse avrebbe trovato un amore, forse sarebbe diventata italiana; forse, ma ora era il momento della gioia.
* * *
Il castello napoleonico si apriva al centro di un vasto terrapieno; era maestoso ma in realtà non era mai servito a nulla, perché costruito immaginando che i nemici sarebbero arrivati dall'entroterra invece che dal mare, come invece era puntualmente successo. In compenso, specie nei week end, migliaia di persone vi si riversavano percorrendo i sentieri che salivano dai quattro punti cardinali della città; nei giorni feriali era quasi deserto, tranne per i proprietari di cani, le coppiette e i guardoni che lungo le curve e le macchie di arbusti avevano di che divertirsi; a volte, proprietari di cani e guardoni coincidevano. Per chi invece arrivava lassù senza secondi fini, la vista della città era stupenda, e la vista spaziava dal golfo a levante dove i monti si tuffavano nell'acqua, al centro storico a picco sotto il dirupo, al porto con le sue navi e le sue barche, alle fabbriche del ponente e laggiù in fondo le creste delle Alpi Marittime.
In tempo di Covid, però, nessuno arrivava lassù, e i sentieri erano deserti e silenziosi. Così, nessuno dei quattro "gitanti per caso" si aspettava di incontrare qualcuno, e tantomeno immaginavano che per una sorta di magia sarebbero sbucati pressoché contemporaneamente dai quattro punti cardinali dei sentieri.
Si sentivano quasi in colpa l'uno con l'altro per aver violato quella solitudine propria e altrui che era lo scopo evidente di ciascuno; così, timidamente, fingendo quasi di non vedersi si rimisero le mascherine che pensavano non sarebbero servite e si avvicinarono lentamente alla meta del loro viaggio, il muretto sotto il quale si stendeva la città e dove l’occhio poteva andare al mare infinito, ai monti avvolti da una leggera nebbia, agli stormi di uccelli che planavano sui palazzi, alle navi che partivano verso orizzonti lontani.
Nessuno parlava, e ognuno collegava quel panorama al proprio passato e al proprio futuro, al dolore e alla speranza, immaginando che non sarebbero ridiscesi uguali a come erano stati prima.
Fu la signora Anna che decise di rompere il ghiaccio, pensava fosse suo dovere, essendo la più vecchia: "Questo skyline sembra una scala verso il Paradiso" mormorò sorridendo agli altri tre. La frase le era uscita così, quasi non se la riconosceva, lei così semplice, ma pensò che a suo marito sarebbe piaciuta e sarebbe stato orgoglioso di lei.
"Esta es una escalera al Paraiso!" le rispose Esmeralda col suo largo sorriso e gli altri annuirono.
Il cielo cominciava a tingersi di rosa e bisognava prendere la via del ritorno. Ma la vita ora era un po' più bella e un po' più vicina al Paradiso, che forse era proprio lì, sopra lo skyline della città.