Politiche Industriali per il futuro del Paese
L’Assemblea Federmanager del 10 maggio 2019 ha posto la priorità e l'urgenza delle infrastrutture per la competitività del sistema paese, primo passo per creare le condizioni di attrattività e sostenibilità per le Politiche Industriali del secondo polo manifatturiero europeo. Opera è una parola poliedrica e la utilizziamo per l’arte, la musica, l’ingegno, l’artigianato, la manifattura e il genio di Leonardo, di cui ricorrono i 500 anni dalla scomparsa. La sua capacità di invenzione e sperimentazione ha aperto le porte a un rinascimento industriale di cui siamo stati il fulcro e oggi forse lo sono la Silicon Valley, Singapore o Shenzhen.
Stefano Cuzzilla
Presidente Federmanager
Fermiamoci un momento a riflettere su un aspetto apparentemente secondario. Riflettiamo sul contesto. Quanto è determinante il contesto a che un’opera, come l’Uomo vitruviano, venga alla luce?
Senza ecosistemi, senza reti, la società non progredisce. La verità è che non possiamo influenzare ciò a cui non siamo connessi. L’Italia che costruisce rinnova l'appello alla realizzazione di nuovi ecosistemi che collegano le produzioni, i centri di ricerca con le imprese, le città con le periferie.
Dalla nostra Assemblea un messaggio cristallino: le opere infrastrutturali, grandi o piccole che siano, vanno fatte “e basta”. Sono sinonimo di modernità e di accelerazione. Sono soprattutto strutture che uniscono. Come è stata “la grande via del traffico e del lavoro che unisce il settentrione e il meridione del Paese”. Sono dovuti passare più di 60 anni perché avessimo compiuto il progetto della Salerno-Reggio Calabria. E la storia sembra ripetersi con la Tav, l’infrastruttura su cui siamo riusciti a dividere il Paese, anziché collegarlo ai nostri vicini d’Oltralpe. La Tav è un investimento strategico e non possiamo accettare lo stallo. Non possiamo soprassedere sul fatto che se si spreca l’investimento pubblico, si sabota l’attuazione, si variano i progetti, i primi a pagare sono i cittadini. Pagano le imprese e pagano i lavoratori. Potremmo elencare tutti i cantieri fermi o raccontare della burocrazia che chiede all’impresa di indicare i nomi dei fornitori a cui affidarsi nell’eventualità di un’aggiudicazione che, se va bene, gli farà aprire il cantiere tra cinque anni. Nel nostro Paese sono in vigore oltre 110mila leggi. Ci confrontiamo con manovre di Bilancio lunghe quasi come i Promessi Sposi di Manzoni, come ha notato Sabino Cassese. La nostra burocrazia è arrivata a valere il 4,6 del nostro Pil. Non è certo un problema solo di questo governo. È una situazione incancrenita che non è più sostenibile.
Il tema delle infrastrutture è collegato strettamente alla produttività di un’economia. Trovo davvero imbarazzanti i commenti sulle variazioni del Pil. Non siamo in recessione per decimali di punto, e abbiamo davanti lo spettro dell’aumento dell’Iva. Tra il 2000 e il 2016 la produttività del lavoro in Italia è aumentata dello 0,4%. In Francia, nel Regno Unito, in Spagna del 15%. Del 18,3% in Germania. La parola “produttività” nel contratto di governo è citata un’unica volta, e per giunta quando si parla del sistema giustizia. Dovremmo invece ristabilirne il primato. “La produttività non è tutto”, è stato detto, “ma a lungo termine è quasi tutto”
Vantiamo una posizione logistica, al centro del Mediterraneo, che dovrebbe da sola portarci vantaggio competitivo e non la sfruttiamo. Se Trieste e Genova diverranno l’attracco cinese nel Continente, non è certo per conquistare uno spazio politico. Piuttosto, le infrastrutture segnano i rapporti economici, allargando lo spazio funzionale in base al modo con cui lo utilizziamo. Prendiamo Dubai. Un numero di turisti che ha superato Londra o Parigi. Il 90% della popolazione residente di nazionalità straniera. Emirates Airlines prima compagnia su destinazioni africane. Oltre 20mila aziende che lavorano a stretto contatto in 200 Zone Economiche Speciali. Secondo il World happiness report 2013, perfino sopra ad Usa e Lussemburgo per “tasso di felicità” dei suoi abitanti. Dubai, sorta in mezzo al deserto, è la dimostrazione che la presenza di infrastrutture di livello mondiale è ciò che fa la differenza tra occupare una posizione geografica conveniente e diventare un vero hub internazionale. Abbiamo chiaro cosa significa? Abbiamo chiaro quale ruolo ci spetti in questo nuovo ordine globale?
Una virtù delle politiche industriali dovrebbe essere la capacità di trattenere gli investimenti. Questa è una tipica abilità manageriale, che molti di noi hanno imparato a esercitare bene. Sappiamo che gli investimenti richiedono fiducia e, a loro volta, creano fiducia reciproca tra paesi. E sappiamo che per questo sono anche molto volubili, si spostano al primo cambio di vento. La fiducia si costruisce anche con gli interventi in infrastrutture e logistica. Non solo opere fisiche, ma anche virtuali: reti digitali, banda larga, 5G e Cloud. Questo piano di investimenti, compartecipato da pubblico e privato, disegnerà la nostra possibilità di porci come Paese industrializzato. Se sapremo essere all’avanguardia, se sapremo essere competitivi, se sapremo crescere, avremo effetti sull’occupazione e sulla qualità del lavoro. Soltanto così si costruisce il vero reddito di cittadinanza, che è quello che dura per sempre.
A proposito di reti digitali. Il terzo tema fondamentale per noi manager riguarda proprio la tecnologia. L’impatto che la tecnologia è destinato ad avere su produttività e lavoro. Tra tutte le rivoluzioni industriali quella attuale si connota per almeno 4 caratteristiche. Primo, è straordinariamente veloce. Secondo, è pervasiva, perché tocca trasversalmente tutti i processi, i prodotti, il modo stesso di organizzare l’impresa. Terzo, è a suo modo antropologica, come dimostra l’impatto che l’intelligenza artificiale sta generando sulle catene del valore, con effetti etici sulla relazione uomo-macchina. Quarto, è dannatamente selettiva: chi non sta al passo, non reagisce e non si trasforma, viene fatalmente estromesso dai giochi. Temo che su queste implicazioni non si sia riflettuto abbastanza. Non si può dare priorità agli sgravi sugli investimenti in beni strumentali senza preoccuparsi delle persone che devono gestirli in azienda.
Accogliamo con favore la notizia del super ammortamento del 130% appena riconfermato dal Decreto legge Crescita. Abbiamo collaborato con il governo, e oggi ribadiamo la nostra ampia disponibilità in tal senso, per introdurre una piccola ma fondamentale misura nota con il nome di “voucher per l’innovation manager”. È un segnale importante che il Ministro Fraccaro conferma oggi con la firma del Decreto.
I manager specializzati nell’innovazione sono figure capaci di gestire una complessità di attività che vanno dalla riconversione delle produzioni e delle funzioni aziendali, all’interazione con i robot intelligenti, alla gestione della connettività dell’IoT o, ancora, della possibilità di interfacciarsi con machine learning e big data. L’investimento nel capitale umano deve diventare una priorità di sistema. Una priorità per il decisore pubblico, ma anche per l’imprenditore. Mi rivolgo prima agli imprenditori in sala, al presidente Boccia e al presidente Casasco che interverranno dopo di me. So che condividete questa visione, ne abbiamo parlato tante volte. L’impresa per crescere va managerializzata e i manager devono aggiornare le proprie competenze per consentire all’impresa di fare il salto di qualità. Il nostro Paese ha il 98% di piccole e medie imprese. Moltissime hanno carattere familiare e tra loro, il 70% ha l’intero management che è espressione della famiglia. Nei passaggi generazionali, si sgretolano perfino le realtà più virtuose: un’impresa su tre non sopravvive al cambio. Capiamo che la scarsa managerializzazione delle imprese italiane rappresenta un freno alla modernizzazione del Paese.
I nostri dati evidenziano una tenuta dell’occupazione manageriale, ma sempre più concentrata nelle imprese più grandi, mentre le Pmi faticano a competere. Sappiamo che le imprese che si sono affidate a manager esterni hanno superato la crisi e hanno aumentato la loro produttività. Questa trasformazione 4.0 è troppo veloce, troppo pervasiva, antropologica e selettiva, per consentirci di fare a meno l’uno dell’altro. L’alleanza manager e impresa è una delle risposte che dobbiamo dare a questo Paese. Questo è un momento assolutamente decisivo e alle volte per decollare bisogna mettersi contro vento.
Abbiamo bisogno di investimenti per favorire l’innovazione, con priorità la formazione di competenze digitali di elevato profilo. Servono piani di investimento di lungo periodo su cui fare affidamento su Impresa 4.0 e tutto ciò che ad essa è correlabile, noi pretendiamo continuità di Governo. In un momento in cui la produttività tedesca sta rallentando, il nostro Paese deve esprimere continuità per ridurre il debito pubblico e per rilanciare l’industria. La pressione fiscale è ormai al 43% del nostro Pil. Il carico fiscale sul lavoro può sfiorare il 120%. Il vero nodo è agevolare l’occupazione attraverso un’organica riforma fiscale che alleggerisca la morsa. Stiamo perdendo talenti, perché la verità è che all’estero li trattano meglio! Stiamo perfino pregiudicando le opportunità di affermarsi delle nuove generazioni, non aggiornando programmi scolastici e formazione universitaria. Ogni anno abbiamo 8.000 diplomati negli ITS, contro gli 800.000 circa della Germania. Per non parlare dei bassi tassi di occupazione femminile, conseguenza di un sistema che ancora considera le materie STEM appannaggio degli uomini. Non è più sostenibile il tasso di skills mismatch registrato in Italia. Parliamo di un lavoratore su tre che non incontra il fabbisogno delle imprese, il dato peggiore tra quelli presi in esame dall’Ocse. Ci sono certamente esempi positivi di avanzamento in campo tecnologico, ma non sono portati a sistema. Penso alle esperienze di tanti colleghi in pensione che hanno scelto di investire tempo e capitali, nella crescita di giovani start up.
Molti di noi hanno davanti agli occhi l’immagine di ICube, il robot dalla faccia simpatica su cui lavora da anni l’Istituto italiano di tecnologia di Genova. Potrei citare tanti casi di eccellenza italiana per convincerci che abbiamo stoffa da vendere. Ma la competitività di un Paese non si costruisce sulle eccezioni, né sul sacrificio, per quanto grande, di pochi. I nostri tassi di venture capitalist sono tra i più scarsi. Da noi si investe, in valore assoluto, un cinquantesimo di quanto fanno negli Stati Uniti, meno di un quinto rispetto alla media europea. Va bene, va benissimo, aver istituito il Fondo nazionale per l’innovazione. Le start up innovative vanno finanziate dallo Stato e questa è una buona notizia. Ma l’obiettivo deve essere la creazione di ecosistemi il più possibile interconnessi, capaci di condividere informazioni e finanziamenti, e integrarli a livello paese. Se vogliamo essere competitivi, dobbiamo ripensare il rapporto tra lavoro e tecnologia a partire dall’investimento nel sistema del sapere. Siamo di fronte a una sorta di tecnoumanesimo: il futuro, straordinariamente intelligente; il presente che lo è molto meno. Facciamoci i conti.
Abbiamo bisogno di Politica Industriale, ... di Politica.
01 giugno 2019