Age Management: strumento di sviluppo organizzativo con valenza strategica
Le imprese hanno bisogno di manager empatici e disponibili a evolvere insieme al proprio team, valorizzando le differenze generazionali e riconoscendo il merito per creare organizzazioni più coese, innovative e produttive.
Michele Moroni
Socio Federmanager Verona
Per la prima volta nelle aziende convivono quattro generazioni diverse: un mix di età che porta con sé valori, esperienze e aspirazioni differenti. Un gap generazionale che la digitalizzazione rende ancora più ampio e incolmabile. Web, device tecnologici, piattaforme e social media hanno segnato ed influenzano profondamente il nostro modo di comunicare e relazionarci, arrivando perfino a modificare linguaggio e vocabolario. La rivoluzione tecno-digitale non ha solo modificato le nostre abitudini ed approcci, ma ha trasformato e continuerà a trasformare (con tassi crescenti) mercati, business model, aziende e mondo del lavoro. Un cruccio rilevante per le imprese attuali è proprio quello di non essere in grado di far convivere, in maniera sana, le diverse generazioni che “abitano lo spazio organizzativo”, creando inclusione ed engagement.
Negli ultimi anni il numero dei lavoratori tra i 55 e i 64 anni è aumentato notevolmente, mentre è diminuito quello nella fascia più giovane tra i 15 e i 34 anni. Ma che caratteristiche hanno queste generazioni secondo le classificazioni sociologiche?
Baby Boomers (1946-1964): nati e cresciuti in un periodo di boom economico, dal punto di vista lavorativo hanno minori fattori di insoddisfazione rispetto alle altre generazioni. Riscontrano un certo benessere aziendale, si percepiscono inclusi e valorizzati nell’organizzazione. Questi alti tassi di engagement favoriscono ed hanno favorito la fidelizzazione all’azienda. Ormai prossimi al pensionamento ma ancora attivi, i Boomers soffrono per la digitalizzazione: il cambiamento di modalità operative necessita aggiornamento e percorsi di upskilling e reskilling rispetto a questa generazione avversa alle tecnologie. Si tratta quindi di una generazione incline ed orientata al lavoro, leale e con un forte senso del dovere. I Baby Boomers riconoscono il valore dell'esperienza ed aspirano alla stabilità.
Generazione X (1965-1980): ossessionata dalla propria carriera e stakanovista, la Generazione X ha un’alta percentuale di fidelizzazione verso l’azienda e una bassa percentuale di quiet quitters, fattore però non riconducibile alla motivazione o al coinvolgimento. Caratterizzati da un innato senso di indipendenza, i membri di questa generazione sono generalmente flessibili e orientati ai risultati. Valutano molto l’importanza di un equilibrio tra vita lavorativa e privata. Cresciuti con i primi computer ma sempre troppo presto per vivere a pieno la rivoluzione digitale. I sociologi li chiamano, appunto, Generazione “X” per la loro indeterminatezza. I membri di questo gruppo sono i lavoratori più numerosi e si caratterizzano per ambizione, flessibilità, realismo e indipendenza.
Millennials o Generazione Y (1981-1996): sono coloro che si sentono meno inclusi nel contesto organizzativo. Una generazione che ha vissuto l’entrata nell’universo digitale in tutti i suoi step fin dall’infanzia e ne ha sempre abbracciato vantaggi ed innovazioni: i Millennials sono una generazione focalizzata sulla ricerca di maggior flessibilità, soprattutto oraria, per i quali il supporto al benessere diventa un elemento essenziale. Essi vivono un disallineamento rispetto alle aspettative di carriera e percepiscono disparità verso le opportunità di crescita e carriera offerte dalle organizzazioni, non sentendosi valorizzati nei loro talenti. “Infedeli”, tendenzialmente egoisti e con lo sguardo verso la vita privata e il tempo libero. Associati a una maggiore familiarità con la tecnologia, i Millennials tendono a cercare significato e scopo nel proprio lavoro (purpose). Accolgono ed auspicano trasparenza e un feedback frequente. Appaiono più freddi, pigri, narcisisti e completamente immersi nel mondo digitale e meno interessati alla società che li circonda.
Generazione Z (dal 1997 in poi): il gruppo più giovane che sta facendo il suo ingresso nel mondo del lavoro in questi ultimi anni e si trova già completamente immerso in fenomeni sociali come la great resignation e il quiet quitting. In percentuale, sono il 41% gli intenders della Generazione Z, ovvero coloro che hanno intenzione di rassegnare le dimissioni, contro il 33% di stayers, coloro che rimangono e 26% di resignators, coloro che abbandonano l’incarico lavorativo. Le cause di questi dati con trend negativo affondano le loro radici nell’insoddisfazione generale con riguardo non solo al trattamento economico, ma anche e soprattutto alle (limitate) opportunità di crescita o carriera nell’organizzazione, che si vanno ad aggiungere alla tematica dello spostamento e della distanza casa-lavoro e a quella del welfare. In ogni caso, i più giovani sono i lavoratori che si sentono più valorizzati e inclusi nell’organizzazione, anche grazie al supporto di strumenti adatti alla loro inclinazione digitale. La Generazione Z, però, desidera avere un impatto sociale positivo attraverso l'organizzazione cui appartiene. Abituata a un mondo interconnesso e multimediale con la paura principale di rimanere senza connessione. Estremamente sensibile ai temi ambientali e sociali, apprezza diversità ed inclusione. Velocissima nell’apprendere e, secondo i sociologi, più intelligente delle generazioni precedenti.
Date queste premesse, va sottolineato che, nonostante ci sia già oggi un focus sui giovani, il 55% della forza lavoro è, però, tuttora rappresentato dalle generazioni precedenti. Purtroppo le aziende hanno diversi “pregiudizi” in merito ai senior (anagraficamente parlando) e faticano a promuovere ambienti realmente inclusivi. È invece acclarato che la “contaminazione culturale”, lo scambio tra generazioni e la formazione continua rappresentano dei key success factor per le realtà che operano in un contesto multigenerazionale. La diversità generazionale, quindi, rappresenta un grande valore aggiunto, ma dà adito allo sviluppo di diverse e poco conosciute dinamiche gestionali per i manager che si trovano, quindi, impreparati a coordinare gruppi di lavoro così eterogenei per interessi, aspirazioni e valori.
Ecco allora che ci dovrebbe venire in aiuto una nuova sfaccettatura del management che viene denominata Age Management.
Questo approccio impatta in maniera pesante sulle organizzazioni, laddove diventa basilare affrontare le problematiche e criticità dell’Age Diversity con progetti efficaci di Age Management. Ciò significa che è necessario lavorare per costruire un equilibrio tra competenze, abilità ed approcci delle diverse generazioni all’interno dell’organizzazione, avviando processi per gestire l’invecchiamento della forza lavoro ed il prolungamento della permanenza in azienda, cercando di promuovere le pari opportunità fra i lavoratori appartenenti ai diversi gruppi anagrafici.
Ma più in dettaglio cos’è l’Age Management e come funziona?
Possiamo dire che l'Age Management di fatto è una recente branca delle Risorse Umane che si focalizza sulla gestione di progetti di inclusione e integrazione della diversità. In quest’area si concentrano analisi ed iniziative organizzative mirate a portare in evidenza e mettere a sistema i punti di forza e le esigenze delle varie generazioni presenti in un ambiente di lavoro. La diversità generazionale quando gestita opportunamente, infatti, diventa una spinta propulsiva sui risultati di business e sull’engagement.
Non esistono, però, best practice riguardanti la messa a sistema di un progetto di Age Management. Tutto va relazionato allo specifico contesto in cui vengono sviluppate, considerando che non ci si può focalizzare su un unico target di età in quanto si rischierebbe di non sfruttare il potenziale derivante dall’integrazione delle altre classi. All’interno di una stessa organizzazione\dipartimento o ufficio, l’eterogeneità anagrafica (oltre a quella culturale e di background) può rappresentare un potente booster se opportunamente gestita. Apertura ed orientamento al confronto in un ambiente neutrale e non giudicante agevolano la libertà di espressione (a tutto campo) di ogni risorsa, permettendone crescita e sviluppo.
Per la verità, nelle aziende di matrice italiana il concetto di “gestione delle diversità” non è ancora entrato in toto nel mind set di chi si occupa di HR. L’Age Management sarà, però, destinato ad assumere sempre più rilevanza in seguito al naturale allungamento della vita, a riforme previdenziali che innalzano l’età pensionabile ed alla diminuzione degli under 35 al lavoro. Diventerà inevitabile pensare a politiche ad hoc per gestire le diverse generazioni al lavoro promuovendo, ad esempio, programmi di mentoring/coaching per i neo-assunti, politiche di engagement diversificate a seconda della generazione di appartenenza, iniziative per l’integrazione di culture e approcci diversi in relazione all’età (es. attività formative volte a migliorare la coesione del gruppo di lavoro, team building o il reverse mentoring, in cui figure junior e senior, in una logica di scambio reciproco, condividono ed imparano nuove abilità e competenze).
Il tema dell’Age Management è particolarmente sentito nel settore della Pubblica Amministrazione, dove l’età media dei lavoratori è di 50 anni. Per raggiungere la media di 44 anni nel 2028, come previsto dal Ministero per la Funzione Pubblica, occorrerà assumere circa 1,3 milioni di nuovi collaboratori con un’età media di 28 anni. Ad oggi, tuttavia, i nuovi lavoratori al momento dell’ingresso hanno in media 32 anni. Tuttavia in questo settore le iniziative di Age Management sono pressoché inesistenti e più si continuerà a ignorare il tema, più diventerà insostenibile la situazione. (Fonte: Età e lavoro: in Italia sono aumentati i lavoratori “over 55” – Apl SlabItalia).
L’Age Management quindi dovrebbe diventare un focus prioritario per HR o Gestori del Capitale Umano (in IKEA li chiamano People & Cultural Manager) che dovrebbero riflettere sul fatto che non è possibile pensare di utilizzare gli stessi strumenti standard e indifferenziati di welfare aziendale che funzionano per le risorse senior (presumibilmente con famiglia, figli piccoli e genitori anziani) rivolgendoli specularmente alle risorse junior (probabilmente senza vincoli ed impegni familiari). Aspirazioni, esigenze, obiettivi e necessità sono necessariamente diverse ma bisogna cercare di creare “convergenza”.
Esiste però un aspetto positivo: non ci sono solo divisioni e distanze tra queste classi, ma sussistono dei fattori comuni come, ad esempio, il desiderio di miglioramento continuo, la ricerca di relazioni lavorative positive e la flessibilità in termini di spazi, luoghi e orari.
Anche la promozione di un ambiente di lavoro inclusivo che valorizzi le diversità oggi è di fondamentale importanza. In merito, un approccio utile potrebbe essere quello di offrire opportunità di miglioramento o riqualificazione per le risorse più “anziane”, fornendo risposte mirate su questioni per loro più rilevanti. Orientarsi verso possibili programmi di aggiornamento e formazione continua per tutte le risorse (junior e senior), puntando allo scambio intragenerazionale, diventa pertanto un must. Perché allora non coinvolgere di più le risorse senior nella formazione dei neoassunti avviando programmi di mentoring interno e, al contempo, proporre ai junior a supportare i più “anziani” ad addentrarsi nei meandri della tecnologia, aiutandoli così a sentirsi più aggiornati?
In fin dei conti si tratterebbe di uno scambio equo e sostenibile: esperienza in cambio di novità e angoli prospettici diversi.
Si tratterà di sfruttare le risorse junior dotate di “intelligenza fluida” (ovvero flessibilità, conoscenze tecnologiche, digitali e predisposizione all’innovazione) senza dimenticare di sostenere anche i senior che, dotati di una “intelligenza cristallizzata” (data da esperienza e saggezza), rappresentano certamente un patrimonio importante, fidelizzato e soprattutto esperto.
Non si tratterebbe dunque di scommettere su una generazione piuttosto che su un’altra, ma piuttosto di definire modelli di Gestione delle Risorse Umane volti alla valorizzazione della diversità, dove ogni generazione possa essere messa nelle condizioni di esprimersi al meglio attraverso i propri talenti, competenze, punti di forza e predisposizioni.
Ecco allora che la consapevolezza (intesa come presa di coscienza da parte di ogni risorsa della propria distintività) e il dialogo potrebbero diventare i veri cardini su cui sviluppare la struttura organizzativa del futuro. La coesistenza di competenze diverse e di modelli comportamentali\valoriali differenti, pur essendo difficile da attivare, favorirebbe la costruzione di un dialogo intergenerazionale che creerebbe solide premesse per un fruttifero travaso di know-how orientato a migliorare le performance aziendali. Il passo successivo consisterà in una sempre maggiore integrazione tra i diversi gruppi: un processo di change management che dovrebbe attraversare non solo processi, digitalizzazione e system integration ma estendersi alla cultura aziendale nel suo complesso.
Il tema della diversità generazionale deve essere considerato nel “qui ed ora” perché il futuro inizia adesso e le PMI possono già avere accesso a strumenti per affrontare con successo questa sfida. Bisogna però volerlo.
In conclusione
Se i desideri e le aspettative di ogni generazione sono differenti tra di loro è necessario un approccio di gestione delle Risorse Umane “generation oriented” al fine di colmare i gap che inevitabilmente sussistono, avviando politiche lavorative che favoriscano la retention, quindi la permanenza e la fidelizzazione delle risorse in azienda, minimizzando i rischi di abbandono (resignation) da parte dei profili professionali necessari al successo dell’azienda (talent shortage). L’engagement ha un ruolo centrale per lo sviluppo e il consolidamento di ogni azienda. Nel futuro non si tratterà più di gestire “soltanto” le diversità tradizionali, ma ci sarà la necessità di considerare talenti, passioni e carattere delle risorse a tutto tondo.
Ma come potranno i manager far fronte a tutto ciò?
Dovranno esercitare una leadership trasformativa con flessibilità ed adattabilità ovvero dovranno essere in grado di modulare lo stile di leadership in base alle esigenze della generazione con cui sta interagendo.
Potranno stimolare la creazione di ambienti di lavoro inclusivi dove ogni generazione e risorsa si senta valorizzata, facendosi promotori o sponsor di programmi di mentoring interno incrociato, come già evidenziato precedentemente, al fine di fluidificare lo scambio di conoscenze tra le generazioni e permettere una sana convivenza collaborativa tra gruppi di lavoro diversificati. Si faranno promotori di programmi di formazione e sviluppo professionale che siano rilevanti per tutte le generazioni: se per i Baby Boomers potrebbe trattarsi di aggiornamenti tecnologici, per i Millennials e la Generazione Z potrebbe essere opportuno focalizzarsi sulle competenze di leadership.
Gestire team composti da diverse generazioni è quindi una sfida complessa, ma non impossibile. I manager che riusciranno a comprendere e valorizzare le differenze generazionali potranno creare team più coesi, innovativi e produttivi. In futuro sarà necessario trovare leader flessibili, empatici e disponibili a mettersi in discussione ed evolversi insieme al proprio team.
La gestione della diversità generazionale (Age Management) sarà sempre più una leva per la crescita aziendale ed un valore aggiunto strategico anche in vista di possibili passaggi generazionali: una transizione che richiede condivisione, allineamento, rispetto e riconoscimento reciproco.
I Manager aziendali (soprattutto nell’area HR ma non solo) saranno chiamati a svolgere un compito assai delicato, critico e strategico: rispettare e salvaguardare le esigenze ed istanze diversificate da parte di gruppi di collaboratori sempre più eterogenei e variegati, migliorando i processi di talent acquisition e il retention rate.
11 ottobre 2024