Infortuni: l’indignazione serve poco, se non c’è serietà

Ignoranza della cultura della sicurezza

Ezio Trentini

Associato Federmanager Trento
Egregio Presidente*, 
leggo con raccapriccio le cronache dell’ennesima tragedia sul lavoro, ma la mia indignazione ha sfumature diverse da quella del Presidente della Repubblica, che invita a “non rassegnarsi a subire morti sul lavoro”. Quello che mi colpisce soprattutto è l’ignoranza della cultura della sicurezza non solo tra i datori di lavoro, che per questo a ragione sono spesso indicati come responsabili delle tragedie, ma anche di quelle forze (burocrazia, sindacati, governo e opinione pubblica) che dovrebbero, come dice il presidente, “far rispettare le norme sulla sicurezza del lavoro e fare controlli attenti e rigorosi”. Tutti costoro, basta leggere le interviste dei giornali, puntano il dito sullo sfruttamento, sul precariato, sul lavoro nero, senza alcun riscontro oggettivo, né pratico né teorico. E così viene alimentata la rappresentazione ottocentesca (due secoli fa!) del padrone delle ferriere, demonizzando il profitto e l’efficienza, ed insinuando come rimedi “il controllo sociale” e “la delazione”: magnifici strumenti in voga nei regimi che ci hanno portato Cernobil e altri disastri.

Presidente, Lei ha fama di persona onesta e intelligente, non si lasci prendere dalla passione e dalla demagogia, si faccia portare dati e studi seri sull’argomento (guarda caso tutti di origine anglosassone) da cui risulta inequivocabilmente che nella nostra Società evoluta il primo ad essere danneggiato dalla mancanza di sicurezza sul lavoro è il profitto. La cosa è dimostrata anche dai grossi budget indirizzati dalle grandi aziende in questa direzione e dal fatto che nei paesi anglosassoni, dove il lavoro è assai più precario e c’è più attenzione al profitto, gli infortuni sono assai più bassi che da noi. Questo deve far riflettere sul fatto che il gap non sta nelle norme e nella loro applicazione, ma nella formazione seria: specialmente importante è la formazione di dirigenti (privati, pubblici e sindacali) e delle maestranze, compresi artigiani e contadini, ad una “cultura” della sicurezza, che tra il resto non si deve limitare ai luoghi di lavoro, ma estendersi alle case ed alle strade: non dimentichiamo che la maggioranza degli infortuni avviene tra le mura domestiche e sulla strada. Assai meno importanti sono le verifiche, il più delle volte a cura di burocrati senza esperienza, raramente in grado di incidere sull’efficacia dei sistemi di sicurezza aziendali. La cultura della sicurezza non è fatta di proclami e indignazione, ma di studio e comunicazione di dati e statistiche, in una parola: serietà. Do alcuni suggerimenti, se pur da un pulpito parziale di un ingegnere pensionato dopo una vita passata nei laboratori e nei controlli di qualità e sicurezza. 

(Lettera ufficiale al Presidente Mattarella) 
Ezio Trentini
Federmanager Trento

Ezio Trentini Federmanager Trento

UNO SPACCATO DI VITA… VISSUTA! 

Nel lontano 1965, al penultimo anno di ingegneria meccanica in quel di Padova, mi accorsi di conoscere un sacco di formule, ma di non sapere cosa fosse una coppiglia. 
Lo zio Giovanni d’altro canto, operaio della Lancia di Bolzano, mi raccontava allucinanti storie di giovani ingegneri bistrattati in fabbrica come tante matricole. In Italia non esisteva la pratica dello stage e i docenti “ausiliari” provenienti dall’industria erano in via di espulsione dai corsi universitari; lo saranno definitivamente negli anni successivi, in quanto portatori di teorie “reazionarie” come la competenza ed il merito. 

Così, col mio povero bagaglio di tedesco imparato al ginnasio, risposi al bando di una ditta di Lubecca, che costruiva valvole industriali. Venne a prendermi alla stazione un collega tedesco studente di ingegneria e mi condusse rapidamente in un soggiorno per anziani dove mi avevano riservato una stanza nel sottotetto ed alla ditta che mi avrebbe accolto, non prima di un passaggio alla locale Polizei, dove mi presero i dati e si informarono sulle mie intenzioni. Arrivai in fabbrica con la mia nuova tuta blu e mi prese subito il Meister dell’officina, che mi portò in giro una mezza mattina a visitare i reparti di produzione ed a spiegarmi quale sarebbe stato il mio “percorso”. Era un percorso a ritroso rispetto alla produzione, dal collaudo, al montaggio, alle lavorazioni meccaniche alla saldatura ed infine una settimana all’ufficio progettazione. Terminato il giro, guardandomi fisso negli occhi per essere sicuro che lo seguissi, indicandomi un nuovo tornio semiautomatico, con grande solennità, mi disse: “Vedi questa macchina? Se tu me la distruggi io sono capace di ricostruirla”. 

Poi mi prese la mano e aggiunse: “Vedi questo dito? Se tu lo distruggi io non sono capace di rifartelo!”.

Quella frase e quella consapevolezza, che poi trovai in tutti i capi reparto ed in tutti gli altri operai, era molto di più di un corso sulla sicurezza e delle centinaia di pagine di normative, spesso complesse ed inapplicabili, su cui si basa da noi la cosiddetta antinfortunistica. 
È vero che anche da noi ultimamente si fa strada l’idea che si tratti di una questione culturale, cioè di mentalità, ma troppo spesso si considera l’infortunio come conseguenza perversa dello sfruttamento dei “padroni” nei confronti dei lavoratori, o come “inosservanza” di regolamenti. 

Non nego che anche queste siano tra le cause degli infortuni, ma se osserviamo che spesso vittime sono i piccoli imprenditori, da noi i contadini che finiscono sotto il trattore ad esempio, e che gli infortuni sono un costo enorme anche per le aziende, ci rendiamo conto che il grosso del problema è altrove. 

Ben vengano i corsi e gli ispettori, specie quelli scrostati dagli aspetti burocratici, ma l’obiettivo primario è far sì che nella testa di preposti e lavoratori la sicurezza occupi una posizione di assoluta priorità ed a questo può dare un grosso contributo l’informazione, che invece di fare sconquassi quando succede un incidente, alimentando risentimenti e rancori, dia la massima pubblicità quando se ne accertino concretamente le cause ed i responsabili, alimentando la conoscenza e la consapevolezza. 

Infine due parole sulle “stage” ” degli studenti: bene la necessità di sorvegliare che non si tratti di lavoro nero mascherato, ma per carità non introduciamo altra burocrazia, che scoraggerebbe questa pratica utilissima per lo studente, che si trova molto più preparato di fronte alle scelte successive, ma anche per le scuole, che vengono così ad usufruire di esperienze concrete dal mondo per cui preparano i loro allievi. 

A mio avviso è sufficiente responsabilizzare i due tutor, aziendale e scolastico, che in genere sono professionisti seri e disponibili, impegnandoli con poche chiare regole di comportamento.

Spogliamo il problema dai pregiudizi ideologici, badiamo all’efficacia misurabile delle azioni da intraprendere. Diamo la massima pubblicità alle disgrazie al momento in cui ne sono state chiarite le cause ed i responsabili (i telegiornali dovrebbero dare come prima notizia non la tragedia appena accaduta ma quella appena chiarita).

Diamo la massima pubblicità alle statistiche sugli infortuni e soprattutto alle cause appurate degli stessi. 

Al posto delle esternazioni in occasione delle tragedie, il Presidente istituisca un premio per le opere di educazione alla sicurezza e conferisca onorificenze a chi ottiene risultati eccezionali in questo campo. 

(L’esperienza dell’autore in parte pubblicata sul quotidiano l’Adige del 23 aprile 2022)