Contracting: quanti (r)impianti!

Non tutti sanno che, se c’è un settore in Italia che lavora essenzialmente per l’estero, che funziona da moltiplicatore su un vastissimo mondo di sub-fornitura e che mantiene un’indiscussa leadership tecnologica a livello planetario, questo è il settore dell’impiantistica industriale, o per dirla con facile anglicismo, dell’Engineering and Contracting (E&C).

Giuseppe Colombi

Consigliere ALDAI

Quando nel dopoguerra si svilupparono in Italia i settori del petrolio, del gas, della petrolchimica, e più in generale dei grandi impianti industriali e dell’energia, i grandi “campioni nazionali” allora esistenti si dotarono di proprie capacità d’ingegneria e realizzazione d’impianti, dando vita a società che nel volgere degli anni si affermarono in tutto il mondo. Tutti conobbero ed apprezzarono i lavori di Snamprogetti, di Saipem, di Tecnimont, di Techint. Ma trovarono spazio e successo anche altri ”contractors” indipendenti: CTIP, Technipetrol/Technip, Foster Wheeler italiana e con loro una miriade di società, minori ma non meno attive.
Il settore diede occupazione diretta a decine di migliaia di tecnici di altissima qualificazione: con alterne vicende quel mondo è giunto sino ai nostri giorni. In qualche caso le aziende che lo compongono sono anche sopravvissute alla fine del gruppo originario: è il caso della Tecnimont, nata nella ormai defunta Montedison e tuttora attiva su scala globale.
Ma questo comparto, che porta lavoro e manufatti italiani in tutto il mondo, è oggi frenato da fattori esterni, propri del Sistema Italia, che ne hanno limitato le pur eccellenti potenzialità.
In generale il settore ha avuto vita piuttosto travagliata e soggetta a repentini cambi di strategia: per esempio in  anni recenti qualcuno, con scarsa lungimiranza, a metà di un difficile processo di adeguamento al mercato, ha deciso che l’attività di E&C costituiva un rischio troppo gravoso e se ne è chiamato fuori.
Altri gruppi, nella convinzione di doversi concentrare sul proprio “core business”, sembrano propensi a disfarsi del settore ingegneria e impiantistica, che pure tanta parte ha giocato nel loro storico sviluppo mondiale. Per non parlare di quei grandi enti nazionali che, nei trasporti o nell’energia, hanno scelto di ridurre progressivamente le loro risorse interne di progettazione e realizzazione.
Per certi versi, si tratta di una scelta sciagurata: la progettazione “commodity”,  che si compra sul mercato esterno, quando non la si affida addirittura al contrattista che realizza l’opera, risulta spesso approssimativa, sovradimensionata e tale da contribuire alla moltiplicazione dei costi che affligge la maggioranza delle grandi opere in Italia.
Di recente poi, in qualche caso, a complicare la vita dell’E&C è intervenuta anche la magistratura, per contrastare pratiche commerciali poco trasparenti, specie quando si ha a che fare con Paesi in cui i contratti di agenzia nascondono interessi inconfessabili.
Chi vive nel mondo impiantistico è convinto che un Sistema Paese, che si vuole aperto al mondo internazionalizzato e al contempo “glocal” – ovvero capace di operare senza sentirsi straniero nei luoghi più diversi, e con lui le sue istituzioni – dovrebbe saper valorizzare queste storiche capacità che il contracting italiano mette a disposizione.
Invece si ha l’impressione che gli strumenti più essenziali all’export di cui l’Italia disponeva, nel credito, nella promozione internazionale, per non parlare delle funzioni diplomatiche, abbiano progressivamente perso di rilievo, di competenza e presenza sui mercati: nell’E&C l’internazionalizzazione è un fatto antico, che da decenni  ha  materializzato una capillare presenza italiana a livello globale. 
Oggi si direbbe che il passaggio generazionale tra gli antichi pionieri ed i loro attuali successori si sia realizzato solo parzialmente. C’è un forte rischio che il settore non mantenga l’eccellenza tecnologica e di mercato che tutto il mondo conosceva e che il contracting declini sino a configurarsi come un’altra delle molte occasioni perdute, senza che molti nemmeno se ne rendano conto, magari a cominciare proprio da chi più straparla di una “internazionalizzazione” che nella sostanza non ha mai conosciuto, mentre nel settore la si pratica globalmente da almeno quarant’anni. 
Per aggiungere difficoltà a difficoltà, la caduta del prezzo del petrolio nell’ultimo biennio non ha di certo giovato agli investimenti internazionali, con un impatto molto negativo sulle prospettive future.
Una recente indagine tra i principali “players” evidenzia che, rimandati sine die molti degli investimenti previsti dalle multinazionali dell’energia, non ci si attenda una ripresa prima di qualche anno e il carico di lavoro appare destinato ad un’inesorabile riduzione nel breve periodo. Auspicabilmente, “passerà la nottata”: il settore E&C ha sempre avuto un andamento ciclico e alle fasi di contrazione ha sempre fatto seguito una fase di nuovo sviluppo.  
Succederà anche questa volta, ma nessuno è in grado di dire quando.
Negli anni recenti gli incentivi alle nuove assunzioni, ora conclusi, hanno favorito un forte ricambio generazionale nel settore ed in alcuni casi anche una crescita dell’occupazione. 
Ma oggi la “macchina” si è fermata e non si evidenziano ulteriori significative prospettive di inserimento di nuove risorse, mentre si disperdono competenze antiche. In conclusione, occorrerebbe un “disegno nazionale” che vedesse convergere i soggetti più importanti del settore E&C, i fabbricanti e subfornitori di componenti, sistemi, macchinari, caldareria e quant’altro, per organizzare almeno un momento di comunicazione e scambio con il Governo, orientato al riposizionamento del Sistema Italia nel settore ed alla sua promozione globale.

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