Nuove prospettive per l'industria
Cluster di imprese, filiere di eccellenza e valorizzazione del Capitale Umano per scongiurare la deindustrializzazione del sistema Italia
Roberto Nava
Bain & Company
L'industria si dimostra ancora una volta il motore dell’economia italiana, consolidando la settima posizione mondiale e una crescita negli ultimi mesi quasi doppia rispetto al Pil. Nonostante il recupero dell’ultimo triennio abbia ridotto parzialmente la violenta caduta registrata nelle due recessioni, l’indice della produzione industriale nel 2017 è però ancora inferiore rispetto ai livelli pre-crisi. Come evitare che questa perdita di capacità produttiva italiana si traduca in un fenomeno strutturale e che trasformi in maniera permanente il nostro paesaggio industriale?
Le condizioni a contorno non appaiono favorevoli. Un gigantesco debito pubblico; un quadro normativo non uniforme tra le regioni e poco chiaro nei rapporti stato-regione; una sindrome Nimby (not in my backyard) che impedisce de-facto gli investimenti in nuove infrastrutture; una opposizione ideologica al settore estrattivo, che ha progressivamente ridotto sia la quota di produzione nazionale sia gli investimenti, gli occupati e le relative entrate fiscali; infine, le vicende TAP e Ilva, che rappresentano dei veri case study della difficoltà e dell’incertezza di investire e fare impresa oggi in Italia. In altre parole, si è ridotta la consapevolezza della centralità dell’industria e dei suoi due fattori produttivi: il capitale tecnologico e il capitale umano. Soprattutto in un contesto internazionale in cui l’investimento in innovazione è la risorsa chiave per differenziarsi, ottimizzare i costi e massimizzare la competitività della nostra offerta.
L’obiettivo è sicuramente ambizioso: un’industria ad alto valore aggiunto, trainata da poli tecnologici d’eccellenza con competenze ed esperienze di livello internazionale, che non sia soggetta al rischio di offshoring, ma al contrario attragga investimenti esteri.
La strada da percorrere è lunga, però.
Lo Skills Strategy Diagnostic Report dell’OECD ha evidenziato il gap fra l’Italia e i principali Paesi industrializzati: una diagnosi che ci fornisce una fotografia impietosa del nostro sistema, caratterizzato da un numero di laureati inferiore ai Paesi nostri concorrenti, dalla mancanza di competenze lavorative specialistiche, così dette “task-based skills”, e da un forte disallineamento tra offerta e domanda di competenze. Il Paese è specializzato in molti settori tecnologicamente avanzati, dalla meccanica e all’impiantistica, ma rischia di esaurire le competenze specialistiche che ne garantiscano il mantenimento e lo sviluppo nel tempo.
Le priorità degli interventi di politica industriale, finanziaria e fiscale – associati a nuove modalità di informazione e confronto pubblico sui temi più rilevanti – devono essere lo sviluppo delle competenze e il sostegno delle eccellenze nazionali. Ma anche il sistema imprenditoriale può fare la propria parte, ponendosi alcuni obiettivi irrinunciabili:
- Intensificare i rapporti tra domanda e offerta di competenze: le imprese e le università devono collaborare per creare competenze in linea con le richieste attuali e future del mercato. In particolar modo le università hanno un ruolo centrale nel promuovere programmi di formazione adeguati con la stessa rapidità con la quale mutano gli scenari di riferimento. A ciò si aggiunge centralità degli istituti tecnici e delle scuole professionali nel formare profili di diplomati in linea con le esigenze dell’industria, anche sfruttando l’alternanza scuola-lavoro come doppio veicolo di formazione. Molte aziende hanno sviluppato rapporti one-to-one con istituti di eccellenza, ma si auspica un intervento sistemico, per ridurre il mismatch tra esigenze del mercato e offerta di diplomati. Il Piano Nazionale Impresa 4.0 lanciato dal Governo è un esempio virtuoso e va in questa direzione: agevolazioni fiscali per le aziende che investono in formazione, sviluppo di 4-5 centri di competenze in grado di educare 200mila studenti in dieci anni, finanziamento di 1.400 dottorati specialistici e potenziamento degli istituti tecnici.
- Attuare modelli di formazione permanente: la qualità del proprio capitale umano va continuamente manutenuta e aggiornata, affinché il vantaggio competitivo da esso rappresentato rimanga inalterato. Per raggiungere questo obiettivo le aziende devono incentivare i processi di trasferimento della conoscenza e disegnare percorsi di sviluppo alternati a momenti di formazione, con l’obiettivo di garantire un portafoglio competenze complessivo coerente con le richieste del mercato finale. Nel definire la strategia di formazione le risorse umane non possono sottovalutare un aspetto oggi diventato incontrovertibile: il ciclo di vita delle competenze è molto più breve e, con molta probabilità, metà dei profili professionali attuali scompariranno entro dieci anni. In tema di formazione, anche le associazioni possono giocare un ruolo importante, potendo accedere ad un ampio portafoglio di esperienze e mettendo a fattor comune le migliori best practice sviluppate.
- Ripensare il modello di gestione del talento e di trasferimento inter-generazionale delle competenze: va colmato il gap culturale con le precedenti generazioni e disegnata una nuova strategia di gestione delle risorse. Per motivare e trattenere i migliori talenti, le aziende devono imparare a disegnare e pianificare dei percorsi di formazione su misura, che prevedano incontri di mentoring con figure senior e continuo sostegno nelle sfide personali e professionali. In breve una gestione ad alto valore aggiunto di tutta la filiera delle risorse umane, dal loro ingresso fino all’uscita. Va promosso un ambiente di lavoro basato sui valori della diversità, della meritocrazia e della multi-etnicità, dedicando particolare attenzione alle esigenze dei dipendenti donne e delle famiglie e garantendo uguali possibilità di carriera a chi usufruisce di misure di flessibilità, quali smartworking o part-time. L’investimento in soluzioni digitali permette inoltre di massimizzare il contributo delle risorse senior, aumentandone il raggio d’azione e la produttività, e fornisce l’opportunità di consolidare e codificare il know-how aziendale, rendendolo accessibile e fruibile da un’intera generazione di giovani talenti.
- Ricercare la cooperazione aziendale per capitalizzare il know-how diffuso, attraverso cluster di imprese: il frammentato tessuto industriale italiano può vantare un patrimonio distribuito di competenze di primo livello, che può essere capitalizzato al meglio all’interno di un ecosistema basato sulla mutua collaborazione e supporto. Solo facendo rete è possibile raggiungere una massa critica sufficiente e un mix di know-how tale da realizzare una via italiana allo sviluppo tecnologico e industriale, in un contesto internazionale estremamente mutevole e competitivo.
- Rilanciare i distretti industriali d’eccellenza, anche come palestre di talenti: proprio i distretti industriali – vittime negli ultimi anni di critiche in merito all’inadeguatezza di fronte alla sfida della globalizzazione – continuano a rappresentare il lato migliore del nostro sistema produttivo, dove il fatturato è tornato ai livelli del 2008. Questi poli d’eccellenza – se rigenerati da una politica di investimenti più decisa e selettiva – possono sviluppare un mercato domestico di dimensioni tali da diventare un'efficace palestra di talenti e innescare circoli virtuosi di formazione, generazione di indotto e attrazione di nuove competenze. La filiera italiana dell’Oil&Gas è un chiaro esempio. Si è sviluppata ed è diventata leader globale grazie ad un sistema di collaborazione che altri Paesi ci invidiano: forti sinergie tra imprese, contrattisti, società di ingegneria, produttori di componenti e mondo accademico, rese possibili inizialmente da una robusta domanda interna. In questo contesto aziende come Eni hanno rappresentato delle vere e proprie palestre per generazioni di tecnici e manager ed hanno permesso di sviluppare un indotto robusto ed estremamente sofisticato. Un sistema molto efficiente, che ha permesso di “importare” la domanda di altri Paesi e di godere indirettamente dei tassi di crescita a due cifre di alcune geografie.
È evidente come la concorrenza tra sistemi-Paese avvenga sempre di più su due piani: verso il mercato di sbocco (i clienti) e verso gli investitori (il capitale). Poter offrire ad investitori stranieri l’accesso ad un capitale umano che non ha confronti e la connessione con un sistema industriale efficiente, governato da regole chiare e stabili farà la differenza e permetterà di attrarre capitali e rinforzare il circolo virtuoso che in passato ci ha visto vincenti.
01 febbraio 2018