Employability
Che cosa vuol dire questa parola, anche un po’ difficile da pronunciare e traducibile in italiano con espressioni poco simpatiche come “impiegabilità, spendibilità sul mercato, idoneità a ricoprire un ruolo”?
Alessandra Colonna
Managing Partner - Bridge Partners®L’employability, secondo una definizione di Sumantra Ghoshal, famoso studioso ed esperto di management a livello internazionale, è la capacità:
- per i giovani, di assicurarsi l’ingresso nel mondo del lavoro grazie a conoscenze e competenze garantite dalla qualità del sistema formativo;
- per chi ha un lavoro, di mantenerlo nel tempo, rendendo possibile un passaggio da un ruolo a un altro nella stessa organizzazione, soddisfacendo i requisiti richiesti per ricoprirlo;
- per chi si deve ricollocare, di trovare rapidamente un lavoro, grazie al livello di spendibilità delle proprie competenze.
Doppia responsabilità dunque. Per le aziende, sempre per citare Ghoshal, che devono garantire opportunità per la crescita personale e professionale delle persone, e per le persone, che devono impegnarsi con continuità, sostenere e migliorare le proprie capacità, per rendersi costantemente appetibili sul mercato del lavoro.
Le aziende dovrebbero preoccuparsi se le proprie persone non fossero “richieste” sul mercato: vorrebbe dire che sono prive di particolari capacità, o peggio che sono estremamente fungibili.
Del pari le persone dovrebbero chiedersi sempre: “Quanti potrebbero prendere il mio posto al lavoro?”.
La questione è urgente. Il contesto economico, di profonda crisi, oramai chiaramente strutturale, ha messo sul tavolo, ricollegate al concetto di garanzia, tre necessità stringenti:
- quella del mercato del lavoro di disporre di strumenti di immediata ed efficace decodifica del reale possesso delle competenze professionali vantate;
- quella delle aziende di accelerare i processi di ingresso di nuovi collaboratori e in generale di disporre di un elevato e costantemente aggiornato livello di competenze per crescere in competitività;
- quella delle persone di una facile quanto rapida ri-collocazione, ove necessario, nel mercato del lavoro.
L’argomento può essere analizzato da vari punti di vista. Quello della spendibilità e, a monte, della facilità con cui dare riprova delle nostre capacità nei processi di selezione, è sicuramente uno dei più interessanti.
È d’obbligo una premessa che può risultare scomoda, ma tant’è. La nostra tradizione scolastica prima e aziendale poi ci ha fatto maturare due atteggiamenti, che necessitano almeno di essere messi in discussione, e forse anche rapidamente invertiti.
Noi abbiamo storicamente attribuito un’importanza strategica e pressoché esaustiva alle competenze tecniche. Lo hanno fatto le persone e lo hanno fatto le aziende. Questo valeva in un mondo con un tasso di innovazione basso. Oggi è dimostrato che quello che mediamente gli studenti hanno appreso il primo anno di università, quando si laureano è già obsoleto.
Oltre a ciò la competenza tecnica, se non diventa davvero distintiva, rischia di essere facilmente fungibile, e con essa le persone: qualcuno di più giovane e più aggiornato subentra al nostro posto. E in ultimo, ma non meno importante, la competenza tecnica è, diciamo, “scippabile”: per avvantaggiarsene è sufficiente far parlare gli altri.
L’altro equivoco è stato mirabilmente sintetizzato da Barbara Imperatori, professore associato di Organizzazione Aziendale presso l’Università Cattolica di Milano, che ha sottolineato come la funzione manageriale in Italia sia spesso vissuta come qualcosa di prevalentemente tecnico. “La socialità che caratterizza la nostra cultura ha in parte rallentato processi più strutturati di codifica e sviluppo di competenze manageriali relazionali, che spesso sono considerate un tratto caratteriale e psicologico naturale. La complessità attuale dei contesti organizzativi sta mettendo in luce le debolezze di questo modello manageriale”. Un bravo venditore non è necessariamente un buon direttore commerciale, un buon tecnico non è necessariamente un buon direttore di stabilimento, uno studente modello non è necessariamente un futuro bravo insegnante. Spesso si confondono attitudini relazionali con capacità manageriali che in realtà richiedono competenze approfondite e strutturate, al pari di quelle tecniche. A ciò si aggiunga che spesso le capacità relazionali sono confuse con il carattere, e considerate come tali immutabili.
Molto dello scetticismo nasce proprio dalla difficoltà di oggettivare un concetto di managerialità efficace, e quindi le capacità ad essa sottese e i comportamenti che ne sono espressione. A fronte "dell’inconsistenza” della capacità manageriale, la “consistenza” della capacità tecnica – in termini di procedure e risultato da esse garantito –, sta nella misurabilità tra processi e risultati.
Nel caso delle competenze manageriali, come riconoscere gli errori, propri e altrui, in assenza di processi, modelli e metodi? Un esempio per tutti, la capacità negoziale. Se fosse figlia solo di istinto, talento ed esperienza come faremmo a valutarla in assenza di parametri oggettivi? Limitarsi a valutare la capacità negoziale - e quindi l’efficacia - solo perché si è raggiunto un determinato obiettivo è ingannevole. Il punto non è l’aver raggiunto un obiettivo, ma il come lo si è raggiunto.
Tutto rischia di diventare fluido e relativizzabile. Posso diventare “non responsabile” di qualunque cosa, perché assenza di processi e di metodo vuol dire ovviamente anche questo. E forse a pensarci bene, magari, fa proprio comodo così.
01 luglio 2016