Non è un Paese per chi ha voglia di lavorare
Su cinque adulti da 20 a 64 anni ce ne sono tre che lavorano in Italia, mentre in Germania lavorano quattro su cinque. Una popolazione di nullafacenti o un contesto che non incentiva l'imprenditoria e il lavoro ? Siamo sicuri che il quarto non sia un lavoratore in nero ?
Franco Del Vecchio
Consigliere ALDAI-Federmanager - Segretario CIDA Lombardia – franco.del.vecchio@tin.it
I mezzi di comunicazione in Italia utilizzano il tasso di disoccupazione per indicare l'andamento del "Lavoro". In realtà si tratta di uno strano modo di misurare la forza lavoro contando i disoccupati, cioè tenendo in osservazione le persone in difficoltà, piuttosto che monitorare la parte produttiva del Paese. Bisognerebbe tenere sott'occhio entrambi gli indicatori: occupazione e disoccupazione per monitorare l'andamento del lavoro e confrontarlo con altri Paesi.
Il tasso di occupazione è il rapporto fra i lavoratori attivi e la popolazione in età lavorativa, ad esempio da 20 a 64 anni.
Dopo il calo di settembre, la stima degli occupati in Italia a ottobre 2018 risulta sostanzialmente stabile e il tasso di occupazione risulta del 58,7% secondo le rilevazioni Istat. Il confronto con altri Paesi europei è sconcertante; con un tasso di occupazione del 13,5% inferiore alla media europea siamo in fondo alla classifica e solo la Grecia e Malta hanno un tasso d’occupazione simile. Nel 2017 il sud Italia ha fatto addirittura registrare un tasso di occupazione del 44%, più del 28% inferiore alla media europea, ma anche il nord al 67% è sotto la media europea.
Secondo i dati Eurostat 2016 indicati nella mappa l’occupazione percentuale più elevata si rileva in Svezia, Islanda e in Svizzera. La Germania con un tasso superiore al 79% occupa il 20% in più di popolazione in età di lavoro rispetto all'Italia. Non sono decimali, stiamo parlando del 20%, cioè un lavoratore in più su 5 rispetto all'Italia che riesce invece ad occupare solo 3 persone su 5. Considerando l'intera popolazione, con bambini ed anziani, su 5 cittadini lavorano solo 2 e di questi meriterebbe anche valutare chi crea valore e chi no. Il nostro problema d'occupazione è evidente e indiscutibile.
Il trend dei grafici dell'occupazione maschile (rosso), femminile (verde) e complessiva (blu) indicati in figura sono allarmanti; mentre in Germania il tasso di occupazione complessiva è in progressiva crescita da 15 anni, la linea blu italiana ondeggia fra il debole miglioramento e le prospettive incerte. Dal 2016 al 2018 è aumentata la popolazione italiana in età 20-64 anni ma non gli occupati, mentre in Germania è aumentata l’occupazione con una popolazione sostanzialmente stabile.
Non ci sono dubbi, c’è un’oggettiva differenza di contesto, come dice il Presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, in Italia il lavoro costa il 20% in più e l’energia addirittura il 30% in più rispetto ad altri Paesi europei. Differenze sostanziali che motivano la delocalizzazione produttiva in territori più competitivi.
È un tema che coinvolge le imprese e il lavoro, unica fonte di risorse reali per le prospettive di sostenibilità economica ed il welfare sociale del Paese. In Germania 4 lavoratori contribuiscono ad aiutare il quinto inoccupato e il resto della popolazione non compresa nell’età 20-64 anni. In Italia solo 3 lavoratori si devono far carico, in qualche modo, dei due inoccupati e del resto della popolazione. È evidente che in Italia con 3 lavoratori su 5 e una percentuale doppia di inoccupati rispetto alla Germania, ci sono meno risorse assistenziali disponibili e il trend verso l’aumento della povertà si può arrestare solo favorendo l’occupazione alla radice, cioè creando un contesto che favorisca la competitività delle imprese.
In tale situazione di rischio oggettivo per il futuro del Paese bisogna avere il coraggio di prendere la giusta direzione e investire tutte le risorse disponibili per favorire l’occupazione.
Nell'interesse della collettività la politica si deve occupare di creazione di ricchezza, realizzando un contesto favorevole allo sviluppo, e non solo di ridistribuire risorse decrescenti, impoverendo sistematicamente il Paese.
Fra le misure prioritarie bisogna considerare “concretamente”: la riduzione e la semplificazione della tassazione, la riduzione del cuneo fiscale, lo sviluppo di infrastrutture, l’aggiornamento del sistema educativo, la lotta all’evasione, la competitività complessiva del sistema Paese riducendo i costi dell’apparato burocratico, insomma una radicale semplificazione, razionalizzazione e allineamento della funzione pubblica alle prassi più diffuse in altri Paesi Europei. Abbiamo il dovere di creare condizioni per esprimere tutte le potenzialità del capitale umano e non soffocarne le aspirazioni motivandone la fuga in Paesi che offrono migliori prospettive di realizzazione professionale e personale.
Investire le poche risorse disponibili per alleviare il disagio aiuta a “tirare a campare” nel breve, ma accelera il declino e la distanza con gli altri Paesi europei. Come dicono gli spagnoli “pan para hoy y hambre para magñana” (Pane oggi e fame domani), soprattutto quando in mancanza di risorse si aumenta addirittura il debito pubblico per distribuire redditi e pensioni assistenziali. E se proprio si riescono a trovare le risorse, “raschiando il barile” e imponendo “nuovi e vecchi balzelli” per finanziare manovre assistenziali nel 2019 come si potranno mantenere analoghe politiche in futuro ? Altro debito pubblico, accelerando così la sfiducia, la recessione e il rischio di “default” ? Stiamo imboccando la strada giusta nell’interesse dell'Italia ?
Ma siamo poi proprio sicuri che il 4° dei 5 adulti, che in Germania lavora e che in Italia risulta disoccupato, lo sia veramente ? Se non fanno più notizia i “furbetti del cartellino” possiamo immaginare quanto possa essere altrettanto se non più diffusa la pratica del lavoro nero, per non perdere il diritto al sussidio di disoccupazione o altro reddito assistenziale.
Il reddito di cittadinanza, che lascia intendere un reddito a favore di tutti i cittadini, in realtà è il titolo improprio dell’ennesimo sussidio sventolato per raccogliere e ripagare il consenso elettorale. Un'altra “concessione del principe al popolo”, ma con le risorse dei soliti 3 lavoratori su 5, non certo con i tagli alle pensioni medio alte che rappresentano un’operazione ideologica populista di facciata per raccogliere poche centinaia di milioni rispetto alle decine di miliardi allocati per il reddito di cittadinanza e le pensioni assistenziali. Un reddito di cittadinanza sarebbe auspicabile per tutti, ma proprio tutti i cittadini. Un fondo alimentato dalla buona gestione, che l’anno successivo possa essere equamente distribuito a tutti i cittadini, attivi partecipanti della gestione economica del Paese. Un importo uguale per tutti: da utilizzare in riduzione sulla tassazione per chi paga le tasse e un reddito di cittadinanza per chi ne ha diritto e non paga le tasse, escludendo naturalmente condannati e coloro che non meritano di partecipare ai dividendi di gestione del Paese. Un sistema meritocratico quindi e non un contributo per i furbi pronti ad approfittarne.
Dunque è necessario prendere la via della politica seria finalizzata ad aumentare il tasso di occupazione, o meglio il numero di lavoratori che producono ricchezza per sé, per le proprie famiglie, per le imprese e la società. E se la vita si allunga anche i senior possono contribuire, se lo vogliono e sono in grado di esser utili. La soluzione del problema non sta nel far uscire un senior per lasciare (forse) il lavoro ad un giovane, ma creare più posti di lavoro (punto). E poi la scelta di chi assumere è dell'impresa, mentre alla politica e alle Istituzioni spettano le regole per una società migliore per tutti.
Per aumentare l'occupazione bisogna da una parte creare le condizioni per favorire la domanda di lavoro e dall’altra bisogna sostenere i “due disoccupati”, o presunti tali, con politiche mirate che non disperdano risorse a pioggia, ma valutino la situazione economica e finanziaria complessiva del singolo soggetto: sia per verificarne i redditi reali e il tenore di vita, sia per concordare un piano sostenibile e concreto di rientro nel mondo del lavoro. È naturale che la seconda parte, quella del sostegno al disoccupato, avrà buon esito solo se avrà successo la prima e quindi la priorità è evidente, così come la necessità di misure mirate e bilanciate dal buon senso e responsabilità nei confronti di tutta la popolazione e non solo di una parte di essa a scapito dell’interesse complessivo.
L’Italia è un Paese di lavoratori seri e illuminati che hanno contribuito per secoli al progresso nel mondo, che meritano politiche di riconoscimento del merito con leggi semplici e chiare, che non mettano in dubbio il valore del proprio lavoro e le prospettive per le nuove generazioni.
15 gennaio 2019