Il diritto di critica nel rapporto dirigenziale
La critica operata dal dirigente nei confronti dell’azienda è legittima se costruttiva, rispettosa dei principi di continenza, operata in via riservata e in assonanza con la linea tracciata dalla direzione aziendale
Patrizio Melpignano e
Marco Marzani
Avvocati Studio Legale Astolfi e Associati
Una recente pronuncia della Corte di Cassazione (Ord. n. 2246 del 26 gennaio 2022) offre l’opportunità di fare il punto sui limiti dell’esercizio del diritto di critica del dirigente nei confronti dei vertici aziendali.
Il caso portato all’attenzione della Corte riguardava un dirigente licenziato senza preavviso per aver rivolto ai propri vertici il seguente messaggio scritto: “voi avete tradito la mia fiducia e buona fede e non so quanto potrò andare avanti a sopportare questo vostro comportamento che giudico inqualificabile”. L’azienda aveva ritenuto che con tale messaggio fosse definitivamente cessato il rapporto di fiducia che la legava al dirigente, decidendo di recedere dal rapporto di lavoro. Il dirigente ha contestato l’ingiustificatezza del licenziamento, sostenendo che la frase suddetta, rivolta alla direzione, fosse la conseguenza di una reazione psicologica a precedenti esternazioni del datore di lavoro e che, in ogni caso, un singolo episodio di intemperanza non potesse legittimare il licenziamento.
Il diritto di critica trova il proprio fondamento nell’art. 21 della Costituzione in forza del quale “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Il diritto di critica nei confronti del datore di lavoro non è, però, assoluto ed incontra dei limiti nel tempo tracciati dalla giurisprudenza e individuabili, in primis, nel necessario rispetto della verità e della sussistenza oggettiva delle situazioni criticate, non essendo ammissibili condotte ingiustificatamente lesive del decoro o dell’immagine dell’impresa (Cassazione, 18410/2019). Ciò significa che, in generale, le opinioni espresse dai lavoratori, anche se di critica nei confronti del proprio datore di lavoro, non costituiscono mai di per sé motivo di licenziamento, in quanto espressione della libertà accordata dall’art. 21 della Costituzione, ribadita in ambito lavoristico dall’art. 1 dello Statuto dei lavoratori, stando al quale “i lavoratori (…) hanno diritto, nei luoghi in cui prestano la propria opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”. Ovviamente non rientrano nel diritto di critica espressioni diffamatorie o ingiuriose, così come non risultano legittime quelle espressioni che violino i principi della continenza sostanziale (i fatti devono essere veri) e formale (la critica deve essere operata con correttezza, indicazione del fatto nei suoi elementi oggettivi e rispetto della dignità altrui) e della pertinenza (necessità di equilibrio tra l’esercizio del diritto di critica e il bene toccato dall’esercizio di tale diritto). Qualora le espressioni o anche solo le modalità attraverso le quali tali espressioni si sono manifestate non rispettino i canoni sopra indicati il diritto di critica cessa di essere legittimo, fino a giustificare il licenziamento nei casi in cui risulti irreversibilmente compromesso il vincolo fiduciario (Cassazione Civile, n. 10511/1998).
Il tema della lesione del vincolo fiduciario, che legittima il licenziamento, è, rispetto al rapporto dirigenziale, il vero nodo problematico della questione, tenuto conto del fatto che tale rapporto è per definizione basato su una stretta relazione fiduciaria, senza dubbio più intensa rispetto a quella ordinaria che caratterizza il rapporto di lavoro non dirigenziale. In tal senso tutti i precedenti giurisprudenziali, stando ai quali il dirigente è tenuto ad esercitare in modo particolarmente oculato il proprio diritto di critica perché il venir meno della peculiare sintonia con il datore di lavoro giustifica la cessazione del rapporto. In tal caso, secondo l’Ordinanza in commento, perché ricorrano i presupposti della giustificatezza del licenziamento del dirigente per superamento dei limiti della critica legittima non è necessaria l’analitica verifica delle singole condotte o delle espressioni usate, ma è sufficiente una valutazione globale che escluda l’arbitrarietà del recesso, intimabile in ragione di qualunque circostanza idonea a turbare la relazione fiduciaria con il datore di lavoro. Tale rapporto, proprio perché a fortissima connotazione fiduciaria, può rompersi per ragioni meno “impegnative” rispetto a quelle che la legge richiede per la cessazione dei rapporti non dirigenziali, rendendo più limitato lo spazio di critica che risulta sempre legittima se costruttiva, rispettosa dei principi della continenza, operata in via riservata e in assonanza con la linea tracciata dalla direzione aziendale. E, di fatti, si ha giustificatezza del licenziamento del dirigente quando questo sia fondato su motivi ragionevoli, come tali apprezzabili sotto il profilo della correttezza e della buona fede, sicché si intende non giustificato il licenziamento intimato per ragioni meramente pretestuose, discriminatorie o per violazione di procedure specifiche quali quelle relative alle contestazioni disciplinari.