Il danno alla salute del dirigente per eccessivi carichi di lavoro
La possibilità per il dirigente di modulare la prestazione lavorativa anche in relazione ai carichi di lavoro e alla fruizione di ferie e riposi non esclude la responsabilità del datore di lavoro per i danni alla salute conseguenti all’attività lavorativa
Patrizio Melpignano e
Marco Marzani
Avvocati Studio Legale Astolfi e Associati
Con la sentenza n. 2403 dello scorso 27 gennaio la Sezione lavoro della Corte di Cassazione si è pronunciata sul tema della responsabilità del datore di lavoro rispetto ai danni alla salute lamentati dal personale dirigente in conseguenza di eccessivi carichi di lavoro, quand’anche tali carichi dipendano dai ritmi particolarmente intensi che contraddistinguono l’attività dirigenziale in ragione più della funzione svolta che di specifiche disposizioni datoriali.
La pronuncia offre lo spunto per una rapida analisi del ruolo del dirigente all’interno dell’organizzazione dell’impresa e degli obblighi gravanti sul datore di lavoro in materia di misure di prevenzione dei rischi, ivi compresa l’insorgenza di malattie e infortuni causati dalle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Il nostro Ordinamento assegna al datore di lavoro una particolare posizione di garanzia verso i dipendenti, siano essi impiegati, operai o dirigenti, tanto che l’imprenditore, ai sensi dell’art. 2087 del Codice Civile, è tenuto ad adottare “nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ciò non significa, ovviamente, che il datore di lavoro sia sempre e comunque responsabile di qualunque danno alla salute che il lavoratore possa lamentare in conseguenza dell’esercizio dell’attività. Se, infatti, il lavoratore è tenuto a dimostrare il danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il relativo nesso causale, sul datore di lavoro grava l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele idonee ad impedire il verificarsi del danno e, tra queste, di aver vigilato sull’effettivo uso degli strumenti di protezione forniti ai dipendenti, essendo il datore di lavoro esonerato da responsabilità solo nel caso in cui la stessa condotta del lavoratore, in quanto del tutto imprevedibile rispetto al processo lavorativo tipico e alle direttive impartite, sia la causa esclusiva del danno (Cass. Civ., Sez. Lav. n. 27127 del 4 dicembre 2013).
Un ambito nel quale si pone frequentemente il tema dell’imputabilità al datore di lavoro dei danni alla salute patiti dai lavoratori è quello del licenziamento per superamento del periodo di comporto, laddove il lavoratore sostenga l’imputabilità della malattia o dell’infortunio a illegittime condizioni di lavoro, con conseguente impossibilità di computarla nel periodo di comporto. In termini di principio la giurisprudenza è, infatti, ormai uniforme nel sostenere che “le assenze del lavoratore per malattia non giustificano il licenziamento – neppure in caso di superamento del periodo di comporto – ove la malattia sia imputabile a responsabilità dello stesso datore di lavoro” (Cass. Civ., Sez. Lav., n. 5413 del 7 aprile 2003). In tali ipotesi il lavoratore licenziato potrà impugnare il licenziamento dimostrando “il collegamento causale fra la malattia – che ha determinalo l'assenza (e, segnatamente, il superamento del periodo di comporto) – ed il carattere morbigeno dell'ambiente di lavoro o delle mansioni espletate” (Corte di Appello di Roma, sentenza n. 4092 del 2018).
Anche nel caso analizzato dalla sentenza dello scorso gennaio il lavoratore (un dirigente) era stato licenziato per avere superato il periodo di comporto utile alla conservazione del posto di lavoro. Il Tribunale e la Corte d’Appello avevano escluso il nesso causale tra il danno lamentato e la condotta della società, imputando esclusivamente al dirigente la patologia lamentata. Ciò sul presupposto che la posizione apicale gli avrebbe permesso di modulare diversamente la prestazione lavorativa, consentendogli una più adeguata fruizione delle ferie o un ridimensionamento dei carichi di lavoro, così da non (auto)generare situazioni di stress e sovraffaticamento. La Corte di Cassazione non ha, però, condiviso tale lettura, ritenendo che la prestazione resa dal dipendente al fine di soddisfare l’interesse dell’impresa, coerentemente con il livello di responsabilità proprio delle funzioni espletate, non integri mai gli estremi della colpa del lavoratore (Cass. Civ. Sez. Lav., n. 9945 del 2014), essendo irrilevante, ai fini della configurazione della responsabilità del datore di lavoro, il fatto che il lavoratore non si sia in precedenza lamentato dei carichi di lavoro o che il datore di lavoro ignorasse le condizioni in cui venivano svolte le mansioni, condizioni che, salvo prova contraria, si presumono conosciute in quanto espressione dell’assetto organizzativo adottato (Cass. Civ., Sez. Lav. n. 14313 del 2017). Ne consegue che “il fatto che il lavoratore, per la sua posizione apicale, avesse la possibilità di modulare da un punto di vista organizzativo la propria prestazione, anche in relazione ai carichi di lavoro, alle modalità di fruizione delle ferie e dei riposi, non costituisce fattore di esclusione della responsabilità datoriale, residuando pur sempre in capo al soggetto datore di lavoro un obbligo di vigilanza del rispetto di misure atte a prevenire conseguenze dannose per la salute psicofisica del dipendente lavoratore” (Cass. Civ., Sez. Lav. n. 2403 del 27 gennaio 2022).
Il datore di lavoro sfugge, invece, a responsabilità nel caso di condotte abnormi e imprevedibili che restano, dunque, estranee alla sua sfera di controllo, con conseguente impossibilità di interventi in termini di prevenzione. Per la sentenza in esame, dunque, la posizione del dirigente rispetto al danno alla salute causato dall’attività lavorativa non diverge da quella di qualunque altro dipendente, ma va calata nel particolare contesto in cui svolge l’attività lavorativa chi riveste una posizione apicale. Sul punto la posizione della Corte di legittimità non è, però, monolitica, non mancando precedenti in cui proprio la piena autonomia nell’organizzazione del lavoro, con possibilità di evitare carichi eccessivi, ha consentito di escludere la responsabilità del datore di lavoro (Cass. Civ., Sez. Lav. n. 12725 del 23 maggio 2013).