Il “superlavoro” nel rapporto dirigenziale: previsioni normative e tutele
Occorre porre un tetto alla durata massima dell’orario di lavoro, tetto che viene fissato nella “ragionevolezza” del lavoro svolto
Avv. Alberto Sbarra
Studio Legale Associati Sbarra Besi
Per la particolarità della posizione ricoperta dal dirigente nell’organizzazione dell’impresa, la relativa prestazione lavorativa non è soggetta ad un orario preciso che alle volte si adegua a quello dell’azienda in cui lavora, ma non sempre.
Inoltre al dirigente vengono affidati poteri di iniziativa e ampia autonomia organizzativa che spesso richiedono un’attività intensa per la quale non è possibile stabilire vincoli normali e costanti di orario da osservare nel corso della giornata lavorativa.
Al riguardo, il Codice Civile, rimanda per la durata giornaliera e settimanale della prestazione lavorativa alle leggi speciali o alle norme corporative (queste ultime ormai abrogate da tempo).
Le leggi speciali in materia di orario di lavoro lo hanno disciplinato soltanto nell’ambito delle categorie diverse dal rapporto dirigenziale, ovvero per operai, impiegati e quadri.
Anche il vigente CCNL per Dirigenti Industriali nulla prevede riguardo all‘orario di lavoro da osservare durante la prestazione lavorativa, salvo fare riferimento all’autonomia del dirigente, al suo ampio potere decisionale finalizzato a gestire e realizzare gli obiettivi dell’impresa che implicitamente comporta un tempo lavoro assai ampio che potrebbe non essere quello canonico di otto ore giornaliere come per impiegati e operai.
In linea di massima, pertanto, sin dal Regio Decreto 15 marzo 1923 n. 662 che aveva disposto, per la prima volta in Italia, la limitazione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere per operai e impiegati, con esclusione degli impiegati con funzioni direttive, non vi è mai stato un limite esplicito nell’orario di lavoro per i dirigenti.
Sennonché, anche per il dirigente, è individuabile un limite quantitativo nello svolgimento della sua attività che fa riferimento al criterio della “ragionevolezza” delle prestazioni eseguite.
Detta ragionevolezza coincide in concreto con la quantità di lavoro che può essere tollerata dal lavoratore senza che da ciò ne derivi alcun pregiudizio per la sua salute psicofisica, ovviamente con riferimento alla natura delle sue funzioni esercitate e alle effettive esigenze di servizio proprie del settore nel quale opera l’azienda.
In sostanza le prestazioni del Dirigente non devono assumere dimensioni temporali contrarie a quelle della prassi aziendale o, comunque, abnormi ovvero, in contrasto con il diritto alla salute costituzionalmente garantito dall’art. 32 Cost.
Tra l’altro non essendo previsto, per il dirigente, il lavoro straordinario (ossia quello prestato oltre l’orario normale di lavoro), è evidente che occorre comunque porre un tetto alla durata massima dell’orario di lavoro che viene appunto fissato nella “ragionevolezza” del lavoro svolto.
Alla luce di questo principio, sul piano giudiziario, è stato ritenuto possibile l’accertamento sulla proporzionalità della retribuzione in relazione alla quantità e qualità del lavoro prestato, quando questa superi la normale tollerabilità e vada oltre il limite della ragionevolezza, con la conseguenza che laddove si verifichi che si sia andati oltre a tale limite, spetterà al dirigente il risarcimento del danno parametrato a una quota percentuale dello stipendio relativo al periodo di superamento del suddetto limite.
Se poi il carattere usurante o addirittura nocivo del lavoro prestato comporti delle conseguenze di natura psicofisica, è evidente che al dirigente sarà consentito chiedere il risarcimento del danno alla salute, dimostrando solo le modalità di svolgimento della prestazione improprie o i ritmi eccessivi di lavoro, spettando invece al datore di lavoro provare il contrario, ossia che i carichi di lavoro erano normali o comunque congrui e tollerabili.
Questi principi di diritto sono stati di recente ribaditi dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. 28 febbraio 2023 n. 6008). In particolare, secondo la Corte, sussiste la responsabilità contrattuale del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 Cod. Civ., di garantire che nel rapporto di lavoro siano tutelate l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.
Pertanto il dirigente dovrà solo dimostrare di aver svolto l’attività lavorativa eccedente i normali ritmi con modalità qualitative o quantitative improprie e insostenibili e che ciò abbia comportato un suo pregiudizio psicofisico; dopodiché sarà il datore di lavoro che dovrà dimostrare di aver adottato tutte le misure per salvaguardare la salute del dirigente.
Riassumendo quanto sino ad ora esposto si può rilevare che il dirigente ha una duplice tutela in caso di “superlavoro”: da un lato può pretendere il risarcimento del danno nel caso di prestazione che vada oltre la ragionevolezza con una quota percentuale di retribuzione per il periodo in cui abbia lavorato in modo improprio e, dall’altro lato, nella malaugurata ipotesi in cui abbia subito un pregiudizio psicofisico può avanzare una richiesta di risarcimento danni al fine di essere ristorato dalle conseguenze subite per aver vissuto in un ambiente di lavoro troppo stressante, in cui si richiedeva lo svolgimento prolungato di prestazioni eccedente un normale e tollerabile orario lavorativo.
In definitiva, il dirigente, che si faccia coinvolgere in ritmi di lavoro eccessivi, è opportuno che sappia come tutelarsi potendo chiedere il risarcimento del danno al datore di lavoro, sia in caso di irragionevolezza dei tempi della prestazione lavorativa, sia nel caso subisca un pregiudizio psicofisico, ossia un danno alla persona.