La Corte Costituzionale e le tutele crescenti
La Corte Costituzionale con sentenza 8 novembre 2018 n. 194 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 comma 1 del decreto legislativo 4 marzo 2015 n. 23 (disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 3 comma 1 del decreto legge 12 luglio 2018 n. 96, limitatamente alle parole “di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”).
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La Corte ha ritenuto quindi incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità stabilita dal Jobs Act per le tutele crescenti in base alla sola anzianità di servizio.
Di seguito una breve sintesi dei punti salienti della pronuncia.
“Nell’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale il remittente (Tribunale di Roma) esponeva le ragioni del contrasto di tale normativa con l’articolo 3 della Costituzione. Asseriva anzitutto che la previsione di un’indennità – così modesta, fissa e crescente solo in base all’anzianità di servizio – non costituiva un adeguato ristoro per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e illegittimamente licenziati.
Tale regresso di tutela per come irragionevole e sproporzionato viola l’art. 3 della Costituzione differenziando tra vecchi e nuovi assunti; e pertanto non soddisfa il testo del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza.
La Corte ha rilevato:
- In una vicenda che coinvolge il lavoratore nel momento traumatico della sua espulsione dal lavoro, la tutela risarcitoria non può essere ancorata all’unico parametro dell’anzianità di servizio.
- La previsione di una misura risarcitoria uniforme indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in una indebita omologazione di situazioni che possono essere e sono, nell’esperienza concreta, diverse.
- L’art. 3 del decreto legislativo n. 23 del 2015 – nella parte in cui determina l’indennità in un importo pari a 2 mensilità della retribuzione per ogni anno di servizio – contrasta con il principio della ragionevolezza, sotto il profilo della inidoneità della indennità medesima a costituire un adeguato ristoro al concreto pregiudizio subito dal lavoratore a causa del licenziamento illegittimo e un’adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare illegittimamente.
- Peraltro, sottolinea la Corte, la rigida dipendenza dell’aumento dell’indennità dalla sola crescita dell’anzianità di servizio mostra la sua incongruenza nei casi di anzianità di servizio non elevate. In tali casi appare ancora più inadeguato il ristoro del pregiudizio causato dal licenziamento illegittimo, senza che a ciò possa sempre ovviare la previsione della misura minima dell’indennità di 4 (e ora 6) mensilità”.
In definitiva, ha concluso la Corte “nel rispetto dei limiti minimo e massimo che il decreto legge 12 luglio 2018 n. 87 ha innalzato da 4 a 6 mensilità (limite minimo) e da 24 a 36 mensilità (limite massimo), il giudice, nel determinare l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, terrà conto innanzitutto dell’anzianità di servizio – criterio che è prescritto dall’art. 1 comma 7, lettera c) della legge n. 184 del 2003 e che ispira il disegno riformatore del decreto legislativo n. 23 del 2015 – nonché degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensione dell’attività economica, comportamento e condizione delle parti).