Whistleblowing
Problemi aperti dalla nuova legge n.179/2017
Rischi e spazi di tutela per il dirigente
Marco Fossati
Avvocato presso lo Studio Ichino Brugnatelli e Associati
Marco Paoletti
Avvocato presso lo Studio Ichino Brugnatelli e Associati
La normativa sul cosiddetto Whistleblowing (L. n. 179/2017) si inserisce, per quanto riguarda il settore dell’impiego privato del quale si tratta in questo articolo, nel solco del D.Lgs. n. 231/2001, integrandone l’art. 6, con il prevedere che i modelli di organizzazione e controllo dell’Ente devono istituire particolari modalità con le quali i soggetti indicati nell'art. 5 (e cioè le persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente, persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso e persone a queste subordinate) possano segnalare reati commessi nell'interesse dell’ente ovvero violazioni del modello di organizzazione e controllo di cui siano venuti a conoscenza in ragione del ruolo rivestito: ciò ai fini della tutela dell’integrità dell’ente stesso.
Si ricorda che la normativa 231/2001 concerne gli enti, società ed associazioni (anche prive di personalità giuridica) privati, nonché gli enti pubblici economici, prevedendo che essi siano responsabili (sotto il profilo amministrativo) per i reati commessi dai soggetti sopra indicati (i soggetti individuati nel citato articolo 5 del D.Lgs. 231/2001) nell'interesse o a vantaggio dell’ente; ma la responsabilità di quest’ultimo è esclusa, a norma degli artt. 6 e 7, qualora ricorrano alcune condizioni, tra cui l’adozione e l’attuazione di un modello di organizzazione e gestione specificamente orientato alla prevenzione ed eliminazione degli illeciti penali e amministrativi.
Secondo i requisiti aggiunti con la normativa in tema di Whistleblowing, i modelli atti a esentare gli enti, società e associazioni interessate dalla responsabilità amministrativa devono prevedere (art. 2 L. 179/2017):
- per chi dirige, amministra, gestisce l’ente ovvero per chi è sottoposto alla direzione e vigilanza delle persone sopra indicate, la possibilità di presentare, attraverso uno o più canali, segnalazioni circostanziate di condotte illecite (rilevanti per la normativa 231 e quindi, lo ricordiamo, reati commessi nell'interesse o a vantaggio dell’ente) o di violazioni del modello di organizzazione e controllo di cui siano venuti a conoscenza in ragione del ruolo rivestito, con modalità tali da garantire la riservatezza del segnalante;
- almeno un canale alternativo di segnalazione con modalità informatiche atto a preservare la riservatezza del segnalante;
- il divieto di atti discriminatori o ritorsivi contro il segnalante;
- sanzioni disciplinari nei confronti di chi viola le misure a tutela del segnalante.
È evidente l’intento della nuova normativa di agevolare l’emersione di modalità illecite di gestione aziendale prevedendo forme particolarmente intense di tutela di chi ha la possibilità di farle emergere in quanto a conoscenza dei fatti in ragione del proprio ruolo (dirigenti e amministratori in primis); forme di tutela che si articolano nel doppio regime della protezione della riservatezza del segnalante, da una parte e nella previsione della nullità di una serie di atti ritorsivi di cui egli possa essere eventualmente fatto oggetto, dall'altra.
Sotto questo secondo profilo la normativa prevede infatti:
- che l’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti che effettuano le segnalazioni possa essere denunciata all'Ispettorato nazionale del lavoro oltre che dal segnalante anche dall'organizzazione sindacale indicata dal medesimo (art. 2, ter);
- che siano nulli non solo il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del segnalante, ma anche qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria nei suoi confronti come ad esempio il mutamento peggiorativo delle mansioni adottato a norma dell’art. 2103 c.c. (art. 2 quater). La norma pone a carico del datore di lavoro, per le controversie inerenti a misure organizzative aventi effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro del segnalante e successive alla presentazione della segnalazione, l’onere della prova che le medesime misure siano fondate su ragioni estranee alla segnalazione stessa.
Per quanto riguarda i dirigenti di azienda, merita di essere sottolineato che la normativa introduce una forma di tutela particolarmente forte e incisiva del dirigente/segnalante ove sia destinatario di un licenziamento ritorsivo o discriminatorio, in quanto estende il regime della reintegrazione nel posto di lavoro (cioè l’applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970) in suo favore, quando, nella normalità dei casi, il licenziamento illegittimo o ingiustificato nei suoi confronti dà luogo soltanto ad una tutela indennitaria; in altre parole al pagamento di somme di danaro. La legge, inoltre, introduce un onere della prova particolarmente difficile da assolvere per il datore di lavoro in caso di licenziamento seguito ad una segnalazione, in quanto prevede che sia onere del datore di lavoro dimostrare che lo stesso “è fondato su cause estranee alla segnalazione” (art. 2-quater).
La legge, ancora, non si prefigge solo la finalità di proteggere coloro che segnalano o denunciano reati o irregolarità commessi all’interno di amministrazioni o aziende dalle possibili rappresaglie e ritorsioni da parte di datori di lavoro e committenti.
Il provvedimento, infatti, contiene una parte (l’art. 3, comma 1) che modifica, o quanto meno precisa in modo incisivo, il contenuto degli obblighi del segreto di ufficio e del segreto professionale, che su lavoratori dipendenti e collaboratori gravano, nei confronti dei loro datori di lavoro o committenti, pubblici o privati, in forza rispettivamente degli articoli 326 e 622 del codice penale, nonché degli obblighi di riservatezza previsti dall’art. 2105 c.c.
Infatti la norma prevede che la segnalazione effettuata ai sensi dell’art. 2, cioè quella con le caratteristiche che abbiamo sopra sinteticamente illustrato, costituisca giusta causa “di rivelazione di notizie coperte dall'obbligo di segreto di cui agli articoli 326, 622, 623 del codice penale e all'articolo 2105 del codice civile”.
Nel complesso, la normativa in esame appare, ad avviso di chi scrive, criticabile soprattutto perché risulta incentrata essenzialmente sulla tutela del soggetto segnalante ma non sembra preoccuparsi in modo adeguato dello speculare bisogno di proteggere anche colui che sia fatto oggetto di segnalazioni prive di fondamento o, addirittura, consapevolmente diffamatorie. La normativa in esame, infatti, limita la sanzionabilità disciplinare del “segnalante” ai soli casi di segnalazione infondata effettuata con dolo o colpa grave, facendo così ritenere che, in tutti gli altri casi, chi effettua una segnalazione infondata non sia perseguibile disciplinarmente. Restano, quindi, al segnalante soltanto gli strumenti di tutela “generali” previsti dall'ordinamento giuridico, con particolare riguardo a quelli di ambito penalistico, che oltretutto andranno utilizzati in un contesto in cui l’anonimato del segnalante (e potenziale diffamatore) è protetto dalla legge. È facile prevedere che, in questo scenario, torneranno a essere utili soprattutto gli strumenti di indagine difensiva messi a disposizione dall'ordinamento per colui che intenda procurarsi elementi utili a far valere le proprie ragioni in un futuro giudizio: si tratta, però, di strumenti costosi (che presuppongono necessariamente l’utilizzo di agenzie investigative autorizzate, oltre che di un legale) e che hanno sin qua trovato poco spazio nella nostra pratica processuale, anche per ragioni culturali.