Perseguitati dalla dittatura della maggioranza
Mentre gli assegni previdenziali più sostanziosi sono nel mirino di tagli e ricalcoli e non mancano proposte di riduzione delle detrazioni fiscali per i redditi più alti, i dati svelano che l'1% dei contribuenti paga il 20% di tutta l'IRPEF: cosa ne sarebbe allora del Paese e delle casse pubbliche se i veri oppressi dal fisco italiano decidessero di "scioperare" contro una classe politica che ai fatti preferisce luoghi comuni e slogan elettorali?
Alberto Brambilla
Presidente Centro Studi Itinerari PrevidenzialiNonostante la pandemia da COVID-19 che ha messo in ginocchio la nostra economia avviata a un rapporto debito pubblico PIL superiore al 153%, l’attuale classe politica continua a promettere una riduzione delle tasse, ma non per tutti: solo per quelli con redditi modesti e che, secondo lei, sono tartassati dal fisco, dimostrando così più interesse per la cattura del consenso elettorale che per il benessere del Paese.
La realtà però è diversa dalla “narrazione” politica. In Italia quelli che dichiarano un reddito annuo di 100 mila euro e più sono in tutto circa 500 mila e rappresentano appena l'1,22% degli oltre 60 milioni di abitanti e dei circa 41,3 milioni di dichiaranti. In un Paese normale che è penultimo nella classifica per occupazione, ma tra i primi per evasione fiscale e lavoro nero, un governo normodotato dovrebbe - se non nominarli cavalieri del lavoro (la cui scelta è peraltro avvolta nel mistero) - perlomeno ringraziarli e trattarli con rispetto. Per inciso, questi contribuenti pagano da soli quasi il 20% di tutta l’IRPEF - pari a circa 34 miliardi, cioè in media 68 mila euro a testa ogni anno - dopo aver pagato anche i contributi sociali, il 33% della retribuzione se lavoratori dipendenti e il 24% se autonomi. Per contro, giusto per capirci, il 44% dei contribuenti (18 milioni circa) appartenenti alle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 euro lordi l’anno e da 7.500 a 15mila euro) paga solo il 2,42% di tutta l’IRPEF, vale a dire 3,5 miliardi che, divisi per i contribuenti, fanno 195 euro a testa l’anno. In pratica l’1,22% di “oberati fiscali” paga 349 volte di più del 44%, altro che indice di Gini!
Anche qui una politica che quasi vorrebbe fare a meno dell’Europa e che ritiene il nostro un Paese modello (?) qualche domandina dovrebbe porsela. Per esempio: se la sola sanità costa pro capite 1.886,51 euro, per i primi 2 scaglioni di reddito la differenza tra l’IRPEF versata e il solo costo della sanità ammonta a 49,97 miliardi che sono quindi di fatto a carico degli altri contribuenti. Considerando che anche il successivo scaglione di reddito (da 15 a 20mila euro) paga imposte inferiori al costo pro capite sanitario, per tutelare la salute di questi quasi 36 milioni di cittadini, il 40% circa di contribuenti che paga il 91% di tutta l’IRPEF deve finanziare oltre 52 miliardi ogni anno per la sola sanità, senza appunto contare tutte le altre spese statali sempre a carico dei soliti noti. Ma è credibile questa situazione reddituale per un popolo che ha il record di telefonini, moto, auto, case e che tra gioco d’azzardo, droghe, alcol e tabacco spende 170 miliardi l’anno, cioè una volta e mezza la spesa sanitaria? Nonostante questi dati allarmanti, da troppi anni abbiamo solo esecutivi - e partiti che li sostengono - che hanno perso il “buon senso” e, spinti dalla ricerca del maggior numero di consensi nella perenne campagna elettorale italiana, vanno oltre il populismo, parlano alla “pancia” del popolo promettendo di dare agli italiani “quello che si meritano” e cioè il reddito di cittadinanza, la pensione di cittadinanza, esenzioni dai ticket sanitari e sussidi. Una politica che paga nel breve, ma dura poco, mentre i danni al Paese sono permanenti.
La musica politica però cambia totalmente quando, anziché a milioni di italiani che pagano poco, ma votano in tanti, ci si rivolge a quei cittadini che l’economia la sostengono davvero. M5S e Lega hanno iniziato a perseguitare i pochi pensionati che hanno pagato con contributi le loro pensioni con la riduzione dell’adeguamento degli assegni pensionistici all’inflazione. Per la verità aveva iniziato Prodi nel 1996, riducendo l’adeguamento delle pensioni superiori a 5 volte il minimo (poco più di 2.500 euro lordi al mese) all’inflazione, il che significa per un pensionato con assegno di 8 volte il minimo aver perso un intero anno di pensione dal 2006 a oggi. Poi, il taglio delle cosiddette “pensioni d’oro” e già definirle così è indicativo di un modo brutale di fare politica che istilla odio di classe; non a caso, infatti, la parola d’ordine del Movimento 5 Stelle era: “tagliamo le pensioni a questi ricchi nababbi e diamo una pensione decorosa ai poveretti che prendono poco”. E così circa 24.200 pensionati - tra cui anche dirigenti e magistrati, andati in pensione ad età superiori ai 70 anni - si sono visti le proprie pensioni non ricalcolate ma tagliate brutalmente e contro ogni decenza tra il 15% e il 40%. Ricavi netti per lo stato circa 400 milioni in 5 anni, che costeranno di più quando la Consulta non potrà fare altro che dichiarare incostituzionale la norma.
Ora i giallorossi si sono buttati a capofitto sulla riduzione del cuneo fiscale aumentando i “bonus”: già con i bonus 80 euro, bebè, cultura, giovani e altro, si sono spesi tra il 2015 e il 2017 circa 34 miliardi e altri 20 circa per il 2018 e 2019 a debito, alla faccia delle giovani generazioni. Oggi, mantenendo senza modifiche l’inefficiente reddito di cittadinanza (5 miliardi di costo annuo) si introduce, sempre a debito, il reddito di ultima istanza e i nuovi bonus per i redditi da 8.200 euro a 40.000 euro, che riceveranno una detrazione fiscale a scalare partendo dal luglio 2020 (tabella 1), mentre la tabella 2 evidenzia il costo del provvedimento per il 2020 e a regime, con conseguente diminuzione del gettito fiscale da 9,5 miliardi del 2017 a 12,66 nel 2020 e circa 16 dal 2021.
Fonte: elaborazioni Itinerari Previdenziali su dati Ministero dell'Economia e delle Finanze
Fin qui per i “tanti”. Per contribuenti che hanno redditi sopra i 120 mila euro, nella prima bozza della Legge di Bilancio era prevista l’abolizione di tutte le detrazioni fiscali al 19% e 26%, con l’eccezione di quelle relative ai mutui sulla prima casa e alle spese per malattie invalidanti o croniche; resisi conto (forse) che le tasse non si pagano né per sport né per beneficenza ma per ottenere i servizi, hanno allora ridotto ma non eliminato le penalizzazioni per un incasso stimato di soli 39 milioni in più. Due pesi e 2 misure, altro che merito! Quelli che si mantengono, e con le loro tasse mantengono anche gli altri, sono considerati poco onorevoli, ricchi, forse ladri, cui populisticamente tagliare i redditi, ridurre progressivamente tutte le detrazioni, comprese quelle per il welfare complementare e tagliare le pensioni giudicate troppo alte; tanto sono pochi, non stupidi e quindi non votano i “fenomeni” del momento.
Siamo giunti così alla dittatura della maggioranza, i tanti che opprimono quelli che il lavoro lo creano e sono la classe dirigente del Paese. Eppure, se questi “disprezzabili” non comprassero più i titoli di Stato che, peraltro, spesso danno rendimenti negativi, chi pagherebbe gli stipendi dei dipendenti pubblici, la sanità e le pensioni al 60% degli altri cittadini? E se, provocazione, costoro decidessero di pagare le imposte, ma con un ritardo di sei mesi, è chiaro ai “fenomeni” della politica e dei media, che il Paese resterebbe in “mutande” e che lo spread esploderebbe? Forse premiare impegno e merito non è nel DNA della politica, ma di questo passo il Paese è destinato a un sicuro declino.