CENSIS: dal sovranismo psichico (2018) all’uomo forte (2019)

Quando una continuità familiare diventa utile per raccontare la storia della nazione: alcune riflessioni

Giuseppe Colombi 

Consigliere ALDAI-Federmanager e componente del comitato di redazione Dirigenti Industria
È largamente noto che da secoli, tra le caratteristiche fondanti del nostro paese, il familismo gioca un ruolo essenziale.
A questo verrebbe da pensare quando ci si ritrova tra le mani il ponderoso tomo annuale del Rapporto Censis, visto che in quella istituzione, peraltro benemerita, nella posizione apicale Giorgio De Rita è succeduto al padre e fondatore dell’istituto, Giuseppe. 
Ebbene, questo, come quello in parte analogo di un noto giornalista televisivo, è davvero un caso in cui anche il familismo deve essere considerato provvidenziale, se, come in effetti avviene, riesce a dare continuità storica ad una produzione documentale insostituibile per leggere come evolve il nostro paese.
Quest’anno il Censis rileva che per la quasi maggioranza degli italiani (48%) si evidenzia l’aspirazione a dare la gestione della cosa pubblica ad un “uomo forte”, che li sollevi dalla palude politica in cui siamo affondati.
Che questa sia o no una pericolosa illusione, il dato di fatto rimane: forse, come dirigenti, di qui dovremmo partire per dare voce all’esigenza di cambio che viene dal paese.
Infatti, se è in parte rilevabile il tramonto delle antiche contrapposizioni destra-sinistra, a complicare l’azione del cambiamento sorgono nuovi dilemmi, come ad esempio quelli tra:
  • Politicamente corretto e buon senso antico, specie con riguardo alla semplificazione
  • Sviluppo industriale e sensibilità ecologica (piste ciclabili anche nella minestra e “a Taranto viviamo di musei”)
  • Permissivismo e autorità (con particolare riferimento alla crisi della scuola e del senso civico)
  • Libero mercato e funzione strategica dello Stato (Politiche industriali)

Le generazioni della Nutella

Scusandomi per il rischio promozionale, il riferimento al noto prodotto è utile per classificare le generazioni nate dopo il 1960 circa, quando il paese, uscito malmesso dalla guerra, aveva trasformato la ricostruzione in boom economico. Chi scrive, nato nel 1949, non fece a tempo a conoscere le gioie delle nocciole piemontesi, chi nacque qualche anno dopo invece si, e visse in tutt’altro mondo.
In quegli anni tutto cambiò: con lo sviluppo industriale e l’urbanizzazione ad essa connessa venne al tramonto la millenaria cultura agricola che, con la religione, aveva costituito uno dei pochi elementi unificanti del paese, sostituita dalla televisione.
I ragazzi delle elementari svestirono il grembiule blu dell’era gentiliana e si perse l’identificazione del 1°ottobre come giorno di inizio delle lezioni: che senso avrebbe avuto mantenere quella data, evidentemente legata alla fine della vendemmia, quando ormai il lavoro agricolo familiare dei ragazzi avrebbe potuto essere sanzionato dagli ispettori del lavoro? Oggi questi non riescono spesso a vedere gli schiavi immigrati in provincia di Foggia, ma possono rovinare un agricoltore pavese con famiglia numerosa e amici che vogliano aiutarlo in campagna nei momenti critici. Arriva il funzionario e sancisce a colpi di multe da migliaia di euro lo “sfruttamento del lavoro nero”. Attorno, ronzano elicotteri a supporto della repressione. E gli studenti squattrinati di Pavia, a vent’anni non hanno mai visto una gallina.
Con le generazioni della Nutella, la scuola media unica e l’innecessaria abolizione del latino, crebbe poi la consuetudine dei genitori allo scontro fisico con gli insegnanti che, come bene dice Galli della Loggia (1), persero la sacralità del loro ruolo, dopo che nell’Italia post-unitaria maestri/e elementari erano stati l’elemento unificante della giovane nazione.
Non basta, chi scrive ha fatto in tempo a “servire la patria” con la ferma obbligatoria: tra marescialli che dirottavano vettovaglie, nonnismo ed altre amenità, quella era comunque un’esperienza formativa, che faceva conoscere il Friuli ai ragazzi siciliani e viceversa, e risolveva, pur con qualche dramma personale, l’uscita dall’adolescenza e dalla famiglia. Allora c’erano persino treni a buon mercato che ti portavano, a modesta velocità ma direttamente o quasi, da Cefalù a Pordenone; si chiamava “servizio ferroviario universale”.
Meglio la leva, se l’alternativa odierna si configura tra gioco compulsivo e stupefacenti. (A tre milioni assommerebbero i giovani tra 15 e 28 anni che né studiano né lavorano). Dare il reddito di cittadinanza a tutti i ventenni che si formano per 6-12 mesi in un servizio militare/civile utile a fare anche quello che non fa nessuno (boschi, rifiuti, assistenze, decoro urbano e chi più ne ha più ne metta) non sarebbe una forma meno ambigua di supporto al reddito? 
Forse potremmo ispirarci al più pacifico dei nostri vicini, la Svizzera.

Cultura d’impresa

Di recente il direttore del principale tempio del liberismo italiano, l’istituto Bruno Leoni, si è prodotto in un testo apologetico, a difesa del “libero mercato” e contro i danni perpetrati in Italia dallo “Stato che fa panettoni” (2). L’autore, con coerenza, si inserisce nella scia luminosa del suo presidente, un altro ideologo, membro eminente di una delle più temute stirpi industriali della nazione. (Ancora le famiglie...)
Anche qui c’è molto da dire: se è vero che il ventennio autoritario accelerò la trasformazione industriale del paese, fu la scuola di Giovanni Gentile, non del tutto identificabile col regime, a dare continuità ad una non disprezzabile classe dirigente, già in parte esistente. 
Potremmo parlare della nascente Aeronautica, delle Ferrovie dello Stato, della Montecatini, della Fiat e dagli anni ‘30 dell’IRI: questi furono i contesti, e pochi altri, in cui si coagulò una cultura d’impresa che fu poi artefice, nel dopoguerra, della ricostruzione industriale. Tutto sotto gli auspici, e con i soldi, dello Stato.
Fino agli anni ’80 del nostro secolo (passato), quando tutto degenerò nel clientelismo, nell’inefficienza e nella corruzione, la cultura d’impresa di Eni, Enel, Montedison, Olivetti, Fiat, fu il motore di uno sviluppo e di una internazionalizzazione che non sono certo scoperta dei giorni nostri.
E quei grandi gruppi “fertilizzavano” anche la galassia sconfinata di medie e piccole aziende che vivevano attorno a quei campioni, a volte come sub-fornitori, a volte come concorrenti. La ricerca, questo oggetto misterioso e magico che tutti oggi invocano come panacea per un futuro migliore, nasceva in quei grandi contesti, non fuori di essi.
Liquidata la grande industria, rimaste quasi solo le imprese medio-piccole, oggi impera il “Make profit for shareholders”, ma si traduce in “dare soldi a chi li ha già”. 
Poi si scopre che pensare di fare a meno di quella cultura, immaginare di sopravvivere oggi sul mercato internazionale senza quelle radici, è illusorio. L’Italia del lavoro flessibile, temporaneo, dei “managers” (parola controversa) che cambiano lavoro ogni tre per quattro, della “necessità di accrescere la produttività”, è un paese in inesorabile declino.
D’altronde, se il costo del lavoro pesa su un normale prodotto industriale di media tecnologia per non più del 10-15%, non è comprimendolo ulteriormente che si ritrova ruolo: si finisce per competere con il Viet-Nam, e si perde.

Aprire una discussione per settore

L’ambizione di queste righe sarebbe quella di aprire, per puntate successive, la discussione su temi specifici. 
Così ad esempio, una breve carrellata sul mondo dei trasporti, potrebbe suscitare alcune considerazioni su Alitalia, Ferrovie dello Stato, porti e infrastrutture correlate.
Ugualmente meriterebbe qualche analisi anche il mondo della chimica, le sue produzioni, la sua riconversione verde. Lo stesso dicasi per la meccanica.
Di acqua e rifiuti si è già scritto, come dell’impiantistica industriale, ma nulla vieterebbe di riprendere l’argomento. 
Il collega Gronda (un ex- Telecom) ci ha già parlato del mondo delle telecomunicazioni, ma il tema potrebbe trovare nuovo spazio di analisi e nuovi contributi.
Certamente qualche amico giurista saprebbe aiutarci a dipanare il guazzabuglio delle 150mila leggi vigenti che paralizzano tutto e fanno scappare anche il più ben intenzionato degli stranieri. Potremmo curiosare su come funzionano i comuni e le molte attività ad essi collegate.
E se poi parlassimo di turismo e industria dell’accoglienza, un tema che tutti sfiorano ma che pochi affrontano?
E il futuro verde dell’agricoltura, i mal di testa che sono venuti dal “Lo vuole l’Europa” non meriterebbero di ragionarne? Con le tradizioni che abbiamo, l’agricoltura stiamo finendo di distruggerla, rendiamoci conto…
Come si vede gli ambiti di analisi non mancano: e chi meglio di dirigenti che spesso hanno fatto di questi temi la loro missione lavorativa ed esistenziale potrebbe dire cose ragionevoli?
Diamoci un obiettivo per tutto il 2020, cercando di produrre mensilmente un contributo specifico sulla rivista. Se nelle nostre pagine trovano tanto spazio le solite letture esegetiche di “formazione”, "certificazione delle (in)competenze", "internazionalizzazione", "managerializzazione", "talento e merito" e via di seguito, perché non aprire di più anche all’analisi dei comparti industriali e non solo?
Di recente, il nostro presidente federale ha posto “il rafforzamento del nostro contributo in termini di Politica Industriale” (con la maiuscola) al primo punto persino della sua lettera di auguri natalizia.
È ragionevole pensare che, su questo tema, sarebbe bene seguirlo con convinzione. 

Note:
(1) Ernesto Galli della Loggia: L’aula vuota Ed. Marsilio 2019
(2) Alberto Mingardi: La verità, vi prego, sul neoliberismo Ed. Marsilio 2019

Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.