Il manager, il futuro e la speranza
Manager e società del futuro. Un percorso che non è solo di competenza, ma è fondamentalmente di cultura e di sensibilizzazione verso un nuovo ruolo in una società che è ormai dietro l’angolo. Diciamo che dal cambiamento del manager dipende in gran parte il futuro della società tutta e diciamo che solo lui può garantire la diffusione e il mantenimento di nuovi valori a vantaggio della comunità.
Gianni Di Quattro
Socio ALDAI co-fondatore dell’associazione Nel Futuro (www.nelfuturo.com)
Il manager ha avuto un ruolo importante nel panorama sociale del nostro paese ed è grazie anche a questa figura professionale che le aziende italiane rappresentano, pur in una situazione di crisi del sistema, una eccellenza riconosciuta e validata dal fatto che siamo il secondo paese industriale europeo, oltre al valore delle esportazioni che dimostrano l’accettazione della qualità dei nostri prodotti. Naturalmente il panorama manageriale italiano è, come succede anche per altri comparti sociali, molto variegato perché è diversa la presenza e l’influenza di questi professionisti nella grande azienda o nella media piccola azienda, che peraltro rappresenta la maggioranza della struttura economica e industriale del paese. Così come è diversa la presenza di donne sul totale, anche se negli ultimi anni si nota una certa tendenza migliorativa rispetto allo squilibrio passato.
Negli ultimi decenni la formazione del manager è stata in gran parte rivolta ad istruirlo per consentirgli di fare meglio il suo lavoro, in altri termini si è occupata delle sue competenze e non delle sue conoscenze. Per tornare alla formazione del manager non solo da un punto di vista specificatamente professionale, ma anche come protagonista della vita economica e sociale, come perno fondamentale di sviluppo del paese, bisogna riandare agli anni della ripresa economica postbellica e cioè agli anni 50 e 60, quando si partiva quasi dal prato verde da un punto di vista strutturale e professionale, grazie anche alle varie scuole finanziate da importanti aziende che hanno svolto un ruolo chiave nella ricostruzione professionale e culturale del paese come la torinese IPSOA per esempio o l’ISIDA a Palermo.
Il momento che stiamo vivendo e che ci accingiamo a vivere rappresenta il punto di arrivo di tanti eventi che hanno già cambiato il mondo come la globalizzazione, che è la concentrazione di diversi modi di competere, condizionare, conquistare e gestire. Ma ratifica anche il tramonto definitivo di ideologie che nel secolo passato hanno rappresentato una speranza, almeno per popoli e genti stremati dalla fatica di vivere e, nello stesso tempo, come tendenza da rimarcare, il risorgere di vecchie ideologie che sembravano anche esse perdute, di segno opposto alle prime, e che si diffondono perché puntano su forti leadership e su regimi basati su ordine, sicurezza e promesse di protezione, magari a scapito di libertà e di libero progresso per tutti, cioè a scapito di forme avanzate di giustizia sociale (un grande termometro delle future tendenze sempre più significativo dall’Europa ad altri continenti).
Nello stesso tempo si avverte che questo momento rappresenta il punto di partenza per forti rivoluzioni nel modo di vivere e nella organizzazione delle comunità grazie alla tecnologia sempre più invadente e incombente, anche attraverso i social media, sul comportamento delle masse.
Tutto ciò inevitabilmente cambia il modo di fare impresa, di vedere e capire i mercati, di immaginare politiche e azioni, di operare insomma, e cambia inoltre gli uomini con i quali può essere possibile e, soprattutto, conveniente lavorare ed affrontare il futuro. In altri termini, si amplia significativamente la possibilità di business in ogni campo, ma cambiano le regole e il modo di vivere la propria comunità e quella internazionale, perché cambiano la competitività e i valori che sinora hanno guidato e influenzato il percorso economico industriale.
Dunque in questo grande cambiamento, più definibile come una profonda rivoluzione, non può non cambiare la figura del manager.
Intanto diventa molto più complesso il contesto in cui opera per le integrazioni dei processi e dei mercati. Diventa più difficile, inoltre, il suo lavoro perché è costretto ad operare in una atmosfera di disorientamento sociale, che tende a modificare l’intera configurazione sociale e i ceti che ne interpretavano i principali filoni. Questo accade nell’ambito di un deficit politico che rende sempre più fragile il ruolo di questa categoria che annaspa pesantemente nella sua funzione di coordinamento e di progettazione del futuro a vantaggio di altre più forti e compatte, che però operano per il loro principale tornaconto.
Ma soprattutto il manager è costretto a farsi carico di una azione sociale al posto di strutture e di ruoli che non funzionano più o che sono ormai inadeguati di fronte alla rivoluzione sociale in atto. Cosa vuol dire una azione sociale?
È una funzione per la verità molto diversificata perché, a parte i nuovi modi di impostare produzione e distribuzione e non solo perché la tecnologia ha cambiato parametri e algoritmi, deve farsi carico della assistenza nei confronti della classe politica frastornata e incapace di capire le tendenze vere, forse anche perché la velocità dei tempi non consente processi di maturazione (qualche volta tocca anche sostituirne dei pezzi di questa classe politica). Deve farsi carico anche della collaborazione con i centri di formazione, scuola e università, per dare concretezza alle valutazioni accademiche della realtà e non solo per alimentare la catena delle iniziative economiche del paese. Infine e soprattutto, con la produzione di idee per favorire strutture, iniziative e nuove forme di sviluppo economico, insomma per progettare.
Il manager è l’unica figura professionale che opera a favore dello sviluppo sociale, ha la cultura e le informazioni per capire quello che avviene e matura in continuo una esperienza che solo lui nella società riesce ad avere. La classe politica, come abbiamo visto è inadeguata e le altre categorie sociali prevalentemente tendono al controllo o alla conservazione più che al progresso e all’innovazione. Ecco, il manager è la figura sociale sempre più unica che può interpretare l’innovazione.
Però anche il manager deve cambiare, deve fare un percorso che non è solo di competenza, ma è fondamentalmente di cultura e di sensibilizzazione verso il suo nuovo ruolo in una società nuova, quella che è ormai dietro l’angolo. Diciamo che dal cambiamento del manager dipende in gran parte il futuro della società tutta e diciamo che solo lui può garantire la diffusione e il mantenimento di nuovi valori a vantaggio della comunità.
Possiamo affermare che ci troviamo di fronte ad una sfida grande, importante forse anche di più di quanto vissuto e realizzato nel periodo postbellico. Una sfida che allora partiva dal prato verde e che ora non è proprio così, fortunatamente, perché esistono strutture che si possono in breve tempo convertire, possono guidare il processo di trasformazione sociale con al centro la figura del nuovo manager. Si tratta delle strutture associative che ormai sono articolate ed efficienti su tutto il territorio nazionale ed hanno il prestigio e la credibilità necessarie per avviare e gestire una così importante operazione che dovrà certamente anche prevedere nuovi contesti legislativi e condizioni generali sindacali e di supporto per tutti i manager italiani.
La strada è lunga e difficile anche se piena di fascino perché richiederà molta creatività, mai i dirigenti italiani e le loro strutture associative si sono trovati di fronte a così delicato compito. Saranno necessari nuovi linguaggi, nuove regole e metodologie. Le potenzialità ci sono così come le intelligenze, se la voglia di futuro e se il piacere di rappresentare lo stimolo per una società più preparata e più solidale prevarranno, il successo non potrà mancare. Naturalmente lo sviluppo di un network di riferimento culturale da parte delle strutture associative diventa fondamentale e sarà sempre più necessario mano a mano che il percorso avanzerà.
Personalmente penso che sarà bello seguire, contribuire, partecipare da parte di tutti, perché l’impegno deve comprendere in fondo la somma delle esperienze fatte e forse anche di desideri irrealizzati, è un modo per sentirsi vivi e per sentirsi ciascuno arbitro del futuro di tutti. La speranza, dunque, non è mal riposta e se condivisa e adottata da tutti può portarci al futuro molto più rapidamente di quanto non si pensi.