Ma Alitalia è ancora una bandiera?

Qualche considerazione su un’azienda paradigma di un Paese in cui le cose funzionano per eccezione

Giuseppe Colombi

Consigliere ALDAI-Federmanager e componente del comitato di redazione Dirigenti Industria

Ricordi storici

Negli anni novanta del secolo scorso l’estensore di queste note ebbe la ventura di sviluppare fortemente le relazioni tra la sua azienda e l’America latina. Fu così che per molti anni i voli transatlantici anche più volte al mese divennero la regola.

Di formazione “neorisorgimentale” e capitolina, lo scrivente per spirito nazionalistico volle usare per i suoi trasferimenti Alitalia, romana compagnia di bandiera che serviva con eccellente frequenza almeno tre destinazioni: Caracas, San Paolo ( e un po’ anche Rio) e Buenos Aires.

Lavoravo in un’azienda in cui tutti i grandi viaggiatori erano “Frequent flyers” di un’altra società di bandiera, quella germanica, e questa mia propensione venne considerata un po’ insolita, fino al punto che lo storico ed insostituibile titolare dell’ufficio viaggi pensò di informarne direttamente la compagnia aerea. 

Alitalia mi volle premiare con una tessera “Freccia Alata”, assegnatami per così dire ad honorem.

La mia scelta aveva ampie giustificazioni: viaggiavo in classe business e la “Magnifica” di Alitalia teneva testa, e a volte batteva, tutta la più qualificata concorrenza. I voli erano diretti e condotti in modo tecnicamente impeccabile, almeno per quanto riguarda la gestione degli aeromobili e il comfort di cabina.

L’attenzione all’utenza

Quello che a volte rendeva però meno gradevoli quelle esperienze era, già allora, una certa fragilità organizzativa, un personale di cabina a volte demotivato e poco professionale e la scarsissima attenzione a dettagli che si sarebbero potuti migliorare in modo stabile a costo zero o quasi.

Tanto per fare qualche esempio, una volta, su un volo per Caracas il personale avrebbe dovuto distribuire ai passeggeri la dichiarazione doganale e il modulo di sbarco in Venezuela. Con la massima noncuranza fu distribuita soltanto la dichiarazione doganale, ma era relativa allo sbarco in Argentina. Essendo un po’ incendiario di carattere, diedi in escandescenze.

Ricordo quella volta che, in attesa di un pasto di bordo che sarebbe stato comunque apprezzabile, chiesi alla hostess qualche dettaglio sul menu. Risposta: “Non so, dovrebbero esserci pesce e delle fettine …”.

E i pasti in cui le bevande venivano servite dopo la frutta erano abbastanza la regola…

Ma era anche frequente, invece, che qualche assistente particolarmente gentile e i prodotti italiani serviti rendessero indimenticabile l’esperienza di volo.

Gli annunci di solito venivano fatti , oltre che in Italiano, in una sorta di “Inglese de Garbatella…”, qualche volta al massimo in spagnolo, anche sul Brasile; difficile trovare il portoghese, nei miei ricordi. Ancora oggi, tutti possiamo verificare quanto Alitalia sia in grado di dare annunci nella lingua locale di destinazione, fosse anche il greco della vicina Atene, a cui arrivano almeno quattro o cinque voli giornalieri. Risposta: quasi mai.

Ora se una compagnia gestisce voli frequenti su una certa destinazione, munirsi di annunci registrati anche nella lingua del paese di arrivo non è difficile, anche per la più demotivata e decotta delle aziende pubbliche. Possibile che un ufficio marketing trascuri, o meglio proprio non veda, questi semplici dettagli?

Complessivamente comunque, a quell’epoca che risale ormai al secolo scorso, volare Alitalia non comportava svantaggi: tutt’altro. Il Jumbo 747 che andava in Brasile teneva testa a qualsiasi concorrente, e così l’MD11 di Buenos Aires.

E la scelta, non sembri strano, veniva molto apprezzata proprio dai miei interlocutori latino-americani.

Problemi di strategia e qualità delle infrastrutture

Già allora Alitalia non era una compagnia profittevole: l’impressione era che mancasse una strategia di sviluppo. Pensavo ad esempio perché non fare di Roma l’hub dei voli per l’America Latina di tutto il Mediterraneo Orientale (Egitto, Grecia, Bulgaria, Turchia). È un mercato di più di duecento milioni di persone: a distanza di un paio di decenni, ci ha pensato la Turkish a riempire quel vuoto.

Quanto a noi, ci siamo baloccati per un decennio con la favola dell’hub a Malpensa, come se Air France decidesse di spostare il suo hub a Lione o Tolosa. Solo un’epoca di deliri localisti avrebbe potuto immaginare di sostituire Fiumicino, per sghangherato che sia, con un aeroporto a due piste parallele, più vicino alla Svizzera che centrale in Italia, fino a qualche anno fa collegato in modo problematico con la stessa Milano. E, almeno nell’opinione dello scrivente, con servizi di terra altrettanto mediocri rispetto a quelli del concorrente romano: chi non viaggia molto forse non se ne rende conto, ma il livello delle nostre infrastrutture aeroportuali è molto basso, anche rispetto a paesi un tempo considerati Terzo Mondo.

Anni recenti

Siamo all’oggi: nell’ultimo quindicennio ne abbiamo viste di tutti i colori.

Attorno ad Alitalia si è scatenata la battaglia ideologica della “nazionalità”, fatta propria da alcuni contro altri. Si è assistito al vociare (corporativo ?) di un sindacato poco motivato ad una svolta sostanziale, mentre “capitani (poco) coraggiosi” si producevano in operazioni di facciata, utili soltanto a togliere dal fallimento compagnie minori di proprietà di qualche amico.

Il tutto mentre i “Pierini del Nord Europa” si stracciavano le vesti per gli “indebiti aiuti si stato” che in effetti risultavano indispensabili, peraltro quando non ci pensava KLM, per ritrarsi da un accordo precedentemente sottoscritto, a regalare qualche centinaio di milioni alla povera compagnia tricolore.

Oggi gli stessi eurocrati che “non vogliono farsi carico delle perdite di Alitalia” hanno appena finito di conferire, per le note recenti vicende, circa 7 miliardi ad Air France, un paio a KLM, ed una decina alla pur efficientissima Lufthansa: anche se nello specifico non si tratta di aiuti contrari alla “legge della concorrenza”, ci ha pensato il coronavirus a metterci tutti su un piano di parità.

Adesso, per l’ennesima volta, si riparte. Si dice che sia in corso di definizione una nuova strategia, limitata ma complessiva, che non è ancora nota nei dettagli, ma già appare, dopo la pandemia più che mai, di difficile implementazione.

L’unica certezza è il flusso continuo degli emolumenti ai vari “commissari straordinari di grande esperienza”. Non si legge di un piano di rinascita che sia stato prodotto dai sindacati confederali, ma nemmeno dai nostri silenziosi colleghi interni.

Marketing e passione

Ci vorrebbero idee chiare, passione, determinazione e applicazione anche ai dettagli.

Per percepire la cultura aziendale di una società, per cogliere l’attenzione alla clientela e la chiarezza nei patti contrattuali, oggi basta andare sul sito web: da quello ci si fa un’idea puntualissima del proprio interlocutore.

Se il sito è approssimativo e mal funzionante, se si può colloquiare soltanto attraverso un call center (spesso gestito chissà dove) che costa una tombola al minuto di contatto, se i biglietti elettronici sono pieni di clausole capestro o di condizioni non chiare, se il loro cambio è impossibile o esoso, se molte azioni non sono possibili sul web e bisogna ricorrere ai servizi telefonici a contatore, allora non ci siamo proprio.

Oggi persino molte delle low cost hanno smesso di utilizzare questi espedienti, e le più avvedute si sforzano di rendere amichevole l’approccio nei confronti del cliente.

Non è solo un problema del traffico aereo: anche nel servizio ferroviario c’è chi l’ha capito, mentre altri, forse perché afflitti da sciatteria e lassismo di storica derivazione pubblica, continuano imperterriti a non considerare queste questioni come essenziali.

Politica estera

Spesso si ragiona sul fatto che una grande nazione non possa fare a meno di una credibile politica estera: forse non dovremmo dimenticare che quella politica vola anche sulle ali della compagnia di bandiera.

Un ufficio Alitalia nel centro delle capitali di destinazione, possibilmente aperto e funzionante avendo voli quotidiani, in termini di immagine e promozione nazionale vale probabilmente molto di più di un analogo ufficio statale di sviluppo commerciale, riempito di burocrati romani che distribuiscono materiale promozionale vecchio, inadeguato e che non interessa a nessuno. Tutte attività per le quali basta ormai semplicemente un sito web, purché adeguato.

Quanto alla navigazione aerea, quanto costerebbe al paese mantenere alcune relazioni quotidiane di massima distanza ( Diamo a titolo di esempio, escludendo gli USA, già molto collegati, una decina di destinazioni in parte già raggiunte: Buenos Aires, San Paolo, Rio, Città del Messico, MontreaL, Addis Abeba-Johannesburg, New Delhi, Tokio, Pechino, Sidney)?

Garantire queste dieci relazioni, che da sole nei due sensi potrebbero valere globalmente un paio di milioni di passeggeri all’anno, sarebbe un’operazione di immagine nazionale il cui sbilancio, al massimo nell’ordine di qualche centinaio di milioni annui, sarebbe compatibile con le priorità di una grande nazione. Ci si dirà che le norme comunitarie impediscono le sovvenzioni al trasporto, ma, ricordato che oggi la struttura dei costi di Alitalia è già sostanzialmente allineata a quella della migliore concorrenza, magari alla fine si scoprirebbe che l’operazione ipotizzata non solo non ha costi per la comunità nazionale ma, addirittura, fa profitto.

E così anche la “compagnia di bandiera”, come nei lontani anni del boom economico, tornerebbe a giocare il suo ruolo nel “Rinascimento Italiano” da tutti atteso. 

Un commento finale: forse, per far funzionare le cose bene, sarebbe sufficiente un po’ di passione e di amore per il proprio lavoro, e per il proprio Paese.
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