Riconoscimento del merito
Il racconto di uno dei tanti colleghi che si sono impegnati, più di altri, negli studi e nel lavoro, come i genitori si aspettavano. Una chiave per capire perché l’Italia è nelle ultime posizioni della meritocrazia e perché non è un paese per manager.
Michele Carugi
Consigliere ALDAI Federmanager e Presidente della Commissione Previdenza e Assistenza Sanitaria
In una trasmissione televisiva alla quale ho recentemente partecipato, una signora del pubblico (convocato ad hoc), mentre cercavo di spiegare che le pensioni dei manager non sono affatto regalate, mi ha urlato che dovrei vergognarmi.
Naturalmente le ho risposto che non mi vergogno affatto; non c’è stata la possibilità spiegarle il perché, in quanto i tempi e i modi delle trasmissioni gridate non prevedono risposte esaurienti, ma se ne avessi avuto l’opportunità le avrei raccontato questa storia.
Una storia di impegno responsabile
Sono nato in un paese della riviera toscana, una company town; mio padre era impiegato nell’unica industria del luogo, una multinazionale chimica molto grande nella quale, prima di lui, aveva lavorato mio nonno come operaio.
Come mio nonno aveva fatto con lui, mio padre aveva investito per me nei miei studi, prima il liceo scientifico e poi l’università. Per frequentare il liceo mi sono spostavo ogni mattina con un treno che partiva alle 7:10 e tornavo con uno che arrivava alle 14:00; poi studiavo per il giorno dopo e alla fine della giornata mi vedevo con qualche compagno di scuola.
Per frequentare l’università a Pisa distante 45 km, partivo invece con il treno delle 6:40 e, siccome le ore di lezione di ingegneria erano molte, tornavo alla sera con un treno che mi riportava a casa intorno alle 21.00.
Dopo essermi laureato con un certo ritardo, mentre mi godevo la prima estate da laureato in vacanza in Puglia, in una telefonata a casa, in pieno agosto, seppi da mio padre che una delle aziende alle quali avevo inviato il mio CV mi offriva un lavoro a Milano, con inizio il 17 di Agosto. Senza sentirmi un “deportato” interruppi le vacanze e mi presentai a Milano dove vissi per un po’ in un monolocale nel quale si dormiva aprendo un divano letto nell’unica stanza.
Da allora non ho mai smesso di lavorare, quasi sempre nella zona di Milano tranne un breve periodo in toscana e un anno a Bologna, passato abitando in un residence.
Lavorando per grandi multinazionali americane, ho viaggiato molto, andando e venendo dagli USA anche più di una volta al mese nei periodi più impegnativi, tutto questo anche dopo la nascita dei miei due figli per la buona crescita dei quali non finirò mai di ringraziare mia moglie.
L’attività professionale mi ha dato molte soddisfazioni; credo per merito e anche per un po’ di fortuna, che non guasta mai, sono diventato dirigente a 32 anni e ho avuto il piacere di gestire con responsabilità operative e legali aziende metalmeccaniche di dimensioni medio grandi, tutte parti di grandi multinazionali.
La principale soddisfazione professionale è stata quella di avere lasciato le aziende delle quali sono stato responsabile sempre con fatturati, utili e organici significativamente maggiori di come le avessi trovate, ma, soprattutto, di avere avuto generalmente dai dipendenti e spesso perfino dalle controparti sociali testimonianze di stima anche a distanza di tempo.
Ho anche dovuto accettare che scelte strategiche delle proprietà a seguito di acquisizioni mi costringessero mio malgrado a lasciare per reinventarmi in altri ruoli, perché per noi dirigenti non è mai esistito il “posto fisso”; la precarietà fa parte del nostro ruolo e questo aspetto non viene mai considerato quando si danno giudizi sulle retribuzioni e le pensioni definite dispregiativamente “d’oro”. Così come non si guarda mai all’aspetto delle responsabilità, sia quelle legali che sono sempre oggettivamente in capo ai dirigenti, sia quelle, più pesanti, della sicurezza del lavoro dei propri dipendenti; responsabilità che possono logorare alla lunga.
In particolare la responsabilità del benessere dei dipendenti e delle loro famiglie diventa corrosiva ogni volta che, numeri alla mano, ci si rende conto che l’andamento dell’azienda, che purtroppo dipende in gran parte dalle condizioni economiche generali e non solo dal grado di efficienza, non consente la tenuta degli organici. In quel caso chi ha la responsabilità complessiva deve tenere in massima considerazione la salvaguardia del maggior numero possibile di posti di lavoro, ma ciascun individuo, giustamente dal suo punto di vista, guarda alla propria specifica condizione.
Questo genera un conflitto che non è risolvibile con la razionalità e fortuna che esistono gli ammortizzatori sociali, grazie ai quali ho potuto mediare e sono felice di non avere mai dovuto costringere qualcuno a lasciare il lavoro senza che avesse un atterraggio sicuro.
Sono andato in pensione in anticipo rispetto all’età che viene richiesta oggi, ma il montante di contributi che i miei datori di lavoro e io abbiamo versato sono superiori a quanto mi verrà restituito sotto forma di pensione negli anni che l’aspettativa di vita prevedeva quando mi pensionai. Da allora, poiché si può lavorare anche in età avanzata, svolgo un’attività di consulenza, a fronte della quale verso contributi forse a fondo perduto e che vanno a pagare anche la pensione sociale della signora che mi suggeriva di vergognarmi per l’importo della mia pensione.
Chi ha interesse a mettere in discussione il merito ?
Ecco, questa storia avrei raccontato alla signora e ai giornalisti presenti i quali senza avere la minima cognizione di cosa voglia dire assumersi responsabilità, emigrare, avere la valigia sempre pronta e dover dialogare con proprietà che parlano un’altra lingua, pensano in modo diverso e hanno un set di valori diverso dal nostro, pontificano sulle pensioni altrui sulla base dell’entità che, quasi sempre, è assai inferiore ai cachet che essi percepiscono per fomentare l’odio sociale tra gli ascoltatori.