Scegliere i vincitori, salvare i perdenti

La bizzarra idea di “scomunicare” chi vorrebbe dare al Paese una linea industriale orientata al futuro

Giuseppe Colombi    

Consigliere ALDAI-Federmanager

Luca Luchesini   

Consigliere ALDAI-Federmanager 
e componente della Sotto-commissione Federmanager Industry 4.0

Un’idea “insana”

Il titolo non ce lo siamo inventati noi, è quello del  libro che ha ispirato questo intervento a quattro mani, un testo che ha avuto diffusione ed attenzione ed il cui autore è particolarmente noto per molti motivi. Il volume è apparso da meno di un anno, e tratta "dell’insana idea della politica industriale”. È stato scritto da Franco Debenedetti, ingegnere, manager e per tre legislature membro del Senato della Repubblica, cui è approdato grazie al supporto di forze che, in linea di principio, dovrebbero situarsi agli antipodi delle sue tesi.  Ma si sa, le antiche differenze ideologiche sono da tempo sfumate ed al Parlamento si approda nei modi più inaspettati. Orbene, senza alcuna intenzione offensiva, il libro non risulta di agevole lettura, per uno stile piuttosto farraginoso che spesso indulge in dettagli inessenziali, e in ragione di una tesi di fondo più affermata che validamente difesa, e dunque nemmeno stimolante come si vorrebbe.

Cosa resta del Liberismo?

Essendo l’autore il Presidente dell’Istituto Bruno Leoni, tempio del thatcherismo italiano, non stupisce la sua pregiudiziale ideologica contro lo “stato imprenditore”, ma ad essa si aggiunge l’assoluta contrarietà anche alle meno impegnative velleità programmatorie che hanno caratterizzato qualche periodo della nostra storia, non tra i peggiori dal punto di vista dello sviluppo. Considerare “sovietica” anche la programmazione cara a La Malfa (padre), gettare nei rifiuti della storia il primo centrosinistra e la nazionalizzazione dell’elettricità, rendono davvero singolare la collocazione politica dell’ingegnere autore, o forse, ancora una volta, propongono la domanda su come nascano certe candidature politiche. 
Storicizzando, a fronte di una crescita da tutti perseguita ma ormai apparentemente irraggiungibile, mentre non solo in Italia si misura un impoverimento crescente di fasce sempre più larghe di popolazione, affidarsi ancora agli “spiriti animali” del mercato sembra configurarsi come ricetta vecchia di trent’anni, forse credibile solo agli occhi di una classe dirigente composta di ottuagenari. 
Il libro è caratterizzato dalla feroce opposizione ad ogni intervento statale nel panorama industriale, fosse anche il più riuscito: il fatto che in Italia sia esistito un Mattei creatore di un impero petrolifero tra i più importanti del mondo, che questo stesso signore, solo per accontentare Dossetti, abbia “raccattato” un’azienda in fallimento (Nuovo Pignone)  facendone un gioiello che i suoi successori hanno potuto privatizzare con esiti complessivamente eccellenti, non lo sfiora. 

In prospettiva continentale

Se poi allarghiamo il discorso alla prospettiva europea, non si possono certo trascurare i successi di Airbus che ha 
creato l’unica alternativa a Boeing a forza di sovvenzioni statali. Non c’era forse dietro un preciso disegno di “politica industriale”? È stato speso troppo? Forse, ma senza una concorrenza seria sarebbe stato possibile per EasyJet e Ryanair avere accesso ad aeromobili a prezzi di saldo? Il furore ideologico imperversa anche quando si arriva ad affermare che Volkswagen è caratterizzata da una “cultura disfunzionale che pensa di compensare con l’arroganza la propria bassa produttività”, dato che, a quasi pari produzione, impiega il doppio di dipendenti rispetto a Toyota. 
Oggi poi, quando si è costretti a considerare con attenzione persino il dapprima vituperato reddito di cittadinanza, visto che il mercato muore per mancanza di domanda, non è forse meglio avere aziende che prosperano garantendo la massima occupazione possibile? Dovremmo forse augurarci "l’occupazione zero”?

Un’opinione diversa

Verrebbe voglia di riproporre la lettura del  testo ormai storico di un altro senatore di quell’area, Massimo Mucchetti, che si è sforzato di distinguere il grano dal loglio ed ha valutato, su base pluridecennale, il contributo allo sviluppo nazionale fornito da grandi gruppi italiani nel corso del Novecento. Senza fare qui nomi, c’è chi ha dato (alcuni pubblici), e c’è chi ha succhiato (alcuni privati).
Nel libro di Debenedetti, il capitolo sulle banche è di lettura particolarmente faticosa: si sostiene che esse, grazie al controllo politico garantito dal sistema delle Fondazioni, non rappresenterebbero altro che un modo per fare politica industriale con altri mezzi. Forse sarebbe più corretto limitarsi solo alla considerazione che quegli organismi, nel credito, privilegiano gli amici. 
Invece, guarda caso, non si trova molto sulle sofferenze generate alle banche da prestiti concessi a grandi aziende private, sulla base di piani industriali tutt’altro che solidi. In particolare potremmo pensare espressamente ad una famosa multiutility “familiare” all’autore: essa risulterebbe tra i primi debitori insolventi di una banca nazionale assai vicina al dramma finale. Qui, come fa un noto quotidiano di area in questi mesi, ci s’imbatte in temi da coprire col più assoluto silenzio.

Imprenditoria e Stato in Italia

E arriviamo infine all’omissione più grossa, cioè la mancanza di una seria riflessione sui limiti strutturali del capitalismo italiano, troppo spesso rappresentato da dinastie che, una volta esaurito lo slancio iniziale di qualche geniale fondatore, tendono a cercare rendite di posizione garantite da quello stesso Stato che dicono di aborrire, per assicurare “in saecula saeculorum” la prosperità raggiunta a una vasta progenie di discendenti, di scarso livello manageriale quando non proprio mentecatti, e più a loro agio sulle copertine dei rotocalchi che nelle sale dei consigli di amministrazione.
Come può stupire, in queste condizioni, che si rivolga allo Stato la domanda di creare opportunità per la grande massa dei non appartenenti agli “happy few”, che spesso tali sono non in virtù di meriti propri, ma perché generati, come diceva Warren Buffett, da “lucky sperm”?
Che poi questo sia chiedere troppo a una struttura statale che già fatica ad assolvere i suoi compiti fondamentali (in primis, garantire il rispetto delle leggi e un minimo di welfare in tempi e modi ragionevoli) è altro tema.
L’interrogativo che più attende una soluzione, anche da parte di noi dirigenti, è come rendere più efficiente e trasparente proprio quella macchina statale che oggi lavora senza considerazione alcuna per tempi e costi, per efficacia e qualità dei risultati e per le esigenze dell’utenza tutta. Non ci sono risposte forti su questo, nel testo. Ma forse chiedere all’autore un approccio “svedese” è richiesta che potrebbe apparire avventata e fuori luogo: probabilmente per alcuni l’imprenditoria alla mediterranea ha i suoi vantaggi irrinunciabili.
In conclusione, viene da pensare che il dibattito sulla politica industriale sia la spia di un sistema che si è bloccato ed avvitato in tutte le sue componenti, che agiscono in maniera disfunzionale a prescindere dal loro essere pubbliche o private. Se si parte da queste premesse, è difficile pensare di proporre soluzioni arroccandosi su posizioni ideologiche che risultano difficilmente sostenibili non solo a Roma o Milano, ma anche nella Silicon Valley.  Di sicuro, così non si affronta e risolve il declino italiano: al massimo lo si guarda da spettatori, esterni e piuttosto indifferenti.

Archivio storico dei numeri di DIRIGENTI INDUSTRIA in pdf da scaricare, a partire da Gennaio 2013.