Sviluppo sostenibile, portatore di valore e competitività per l’impresa
Gli studi condotti dall’Osservatorio 4.Manager negli ultimi 12 mesi, mostrano un incremento esponenziale della complessità che manager e imprenditori stanno affrontando sia per gestire le conseguenze delle ripetute ondate epidemiche, sia per immaginare le strategie più adatte ad affrontare la fase post-pandemica e le opportunità offerte dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sia per affrontare uno scenario geoeconomico e delle catene di approvvigionamento radicalmente diverso da quello pre-pandemico
a cura dell'Osservatorio 4.Manager
Quanto al settore industriale, il 33% dei manager recentemente intervistati dall’Osservatorio definisce “Significativo” il danno prodotto dalla crisi sanitaria; il 26% classifica “Severo” l’impatto del virus, soprattutto rispetto alla continuità occupazionale e il 4% addirittura “Catastrofico” al punto da mettere in discussione la sopravvivenza aziendale.
Fortunatamente esiste un nucleo di imprese che sta sfruttando la crisi per innovare, diversificare, migliorare la qualità del capitale umano e incrementare il proprio livello di sostenibilità. Su quest’ultimo aspetto tutti i dati in nostro possesso confermano che, al pari dell’innovazione, anche lo sviluppo sostenibile dell’impresa è considerato sempre più non soltanto come necessario e indifferibile, considerando le stringenti richieste del mercato in questa direzione, ma anche portatore di valore e competitività per l’impresa. In questa fase storica la transizione verso un’economia sostenibile è alimentata anche dall’esigenza di sostenere la crescita economica sia per far fronte all’incremento esponenziale dell’indebitamento pubblico, sia per generare posti di lavoro che vadano a compensare le perdite causate dalla crisi pandemica. Nella maggior parte dei casi le strategie basate sulla crescita si fondano in buona misura sull’innovazione, ossia, la creazione e la diffusione di nuovi prodotti/servizi e processi; in quest’ambito le “innovazioni verdi” mostrano un set molto ampio di opportunità, ad esempio in campo energetico (rinnovabili, stoccaggio, riscaldamento e raffreddamento negli edifici, ecc.); della mobilità e la logistica (veicoli elettrici e ibridi, ecc.); dei rifiuti (riciclo, nuovi packaging, ecc.); della cattura, stoccaggio e utilizzo del carbonio; dei processi produttivi.
A supporto di tali strategie per la crescita esistono ormai numerose evidenze scientifiche: un recente rapporto dell'IEA indica che investimenti mirati nelle energie rinnovabili e nell'efficienza energetica potrebbero far crescere l'economia globale dell'1,1%, salvare 9 milioni di posti di lavoro l'anno e ridurre le emissioni di gas serra di 4,5 miliardi di tonnellate; secondo l’ILO la transizione verso l’economia verde è in grado di generare, entro il 2030, 24 milioni di posti di lavoro
A queste traiettorie si ispirano le ultime e dirompenti politiche europee: il Recovery and Resilience Facility, concepito dalla Commissione europea per affrontare la pandemia, apre un nuovo percorso di crescita basato sul concetto di “sostenibilità competitiva”, ossia sostenibilità ambientale, produttività, equità e stabilità macroeconomica.
Il Recovery and Resilience Facility mira anche alla formazione di capitale: capitale fisso (ad esempio, infrastrutture, edifici, ricerca e sviluppo, brevetti, ecc.); capitale umano (salute, protezione sociale, istruzione, formazione, ecc.); capitale naturale (risorse naturali rinnovabili, protezione e ripristino dell'ambiente, mitigazione degli effetti del cambiamento climatico).
Un capitolo importante del Recovery and Resilience Facility riguarda la transizione verde. Data l’ambizione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 e di ridurre significativamente le emissioni di gas serra per il 2030, gli Stati membri dovrebbero considerare la transizione climatica come prioritaria e orientare almeno il 37% della spesa su questo obiettivo. Inoltre, tutte le riforme e gli investimenti inclusi nei piani di ripresa e resilienza non dovranno depotenziare gli obiettivi climatici e ambientali.
Tutto quanto visto fino a questo momento rende ben chiaro che le trasformazioni innescate o accelerate dal coronavirus non sono esclusivamente economiche, sono anche culturali, sociali, organizzative e manageriali; occorre pertanto un impegno non più rimandabile per sostenere gli attori pubblici, economici e le famiglie a comprendere il senso dei cambiamenti in atto per attrezzarsi a cogliere le opportunità offerte da un futuro dai contorni sempre più incerti e, al contempo, sfidante e ricco di opportunità.
Soprattutto, occorre essere consapevoli che la transizione verso l'economia verde richiederà un numero straordinariamente elevato di competenze, in gran parte di nuova generazione o addirittura ancora da definire. Secondo la maggior parte degli analisti, la mancanza di forza lavoro e manageriale adeguatamente formata costituirà uno dei maggiori fattori di attrito alla transizione verso la sostenibilità; ad oggi, però, la sfida per creare “competenze verdi” si scontra sia con la mancanza di modelli per generare queste competenze all’interno del sistema educativo e formativo tradizionale, sia con l’assenza di strumenti di analisi del mercato del lavoro per comprendere la domanda e l’offerta di queste particolari competenze, e ciò, per i leader politici, rende complesso individuare gli interventi necessari per stimolare l'occupazione e incentivare la creazione di competenze per la transizione sostenibile.
Ciò che è estremamente chiaro è che le “competenze verdi” dovrebbero essere concepite e sviluppate nel contesto più ampio delle trasformazioni tecnologiche in atto e soprattutto in modo organico all'avvento della quarta rivoluzione industriale e dei processi di produzione intelligenti (Industria 4.0). Inoltre, è ormai noto che le tecnologie industriali avanzate hanno un “contenuto verde” generalmente superiore alla media, soprattutto nel campo della robotica, dell’apprendimento automatico e dei sistemi CAD-CAM e, pertanto, la loro diffusione potrebbe favorire la nascita di nuove competenze.
A tal proposito è interessante ricordare che le innovazioni industriali avanzate potrebbero aver ricevuto una spinta senza precedenti dalla pandemia; infatti, mentre in passato l’innovazione in campo produttivo era utilizzata soprattutto per incrementare l’efficienza, grazie al lockdown si è scoperto che è anche in grado di contribuire in modo decisivo alla resilienza e alla continuità aziendale, con la conseguenza che le applicazioni industriali innovative si stanno diffondendo anche a processi produttivi e a comunità aziendali tradizionalmente meno ricettive verso il cambiamento tecnologico e dei modi di lavorare. La pandemia, infatti, ha aumentato notevolmente non solo il lavoro a distanza e la diffusione delle tecnologie correlate, ma anche il livello di accettazione dell’automazione e del lavoro ibrido tra esseri umani, macchine e software, coinvolgendo in questi processi non solo i lavoratori più giovani e avvezzi alle nuove tecnologie, ma l’intera forza lavoro.
A ben guardare, anche il paradigma economico circolare potrebbe accelerare la sua diffusione per effetto della pandemia proprio per una sua derivata: la resilienza dei sistemi basati sul principio circolare. Anche in questo campo, però, le competenze sono fondamentali e per questo motivo sono state oggetto di uno specifico studio da parte dell’Osservatorio.
L’economia globale si basa su catene di approvvigionamento profondamente interconnesse, sostenute da oltre cento miliardi di tonnellate di materie prime che entrano nel sistema ogni anno. Questo sistema è quasi unanimemente considerato insostenibile, ma il coronavirus ha svelato che è anche pericolosamente vulnerabile e che è giunto il momento di guardare a nuovi paradigmi.
Una delle ipotesi più concrete per migliorare la resilienza del sistema è l'economia circolare, che oltretutto potrebbe aiutarci a raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile e di contenimento del riscaldamento globale.
Inoltre, questo paradigma ha mostrato la sua efficacia nel corso del lockdown, stimolando una serie molto ampia di innovazioni che stanno contaminando anche la gestione pubblica. Amsterdam, ad esempio, ha adottato il paradigma circolare come riferimento per le politiche di ricostruzione post pandemica; lo scopo è quello di fare della città, entro il 2050, una comunità a impatto zero.
Dal punto di vista aziendale, la trasformazione circolare può avvenire solo mediante una radicale innovazione del modello di business, il che implica la presenza di precise competenze manageriali.
L’azione manageriale, in un’azienda che adotta il paradigma circolare, deve infatti focalizzarsi sia sul cambiamento che questo paradigma richiede ai modelli logistici, di approvvigionamento e produzione, di servizio e di business, sia sulle dinamiche di mercato, sul customer journey e sulle modificazioni richieste ai comportamenti e agli stili di consumo. Beni e servizi “circolari” implicano, infatti, variazioni significative di gran parte delle logiche di orientamento, scelta, acquisto, pagamento, fruizione, consumo e gestione del fine vita di beni e servizi. Logiche che per più di un secolo sono state “modellate” da norme, valori e simboli concepiti soprattutto per alimentare il ciclo “acquisizione semplificata – fruizione intensiva – smaltimento rapido” dei beni, per privilegiare la proprietà più che il possesso e per enfatizzare il prodotto in sé, più che il servizio in esso incorporato.
Un caso interessante da analizzare per comprendere le competenze manageriali “circolari” è quello delle imprese operanti nella Sharing Economy. Queste organizzazioni operano all’interno di nicchie di mercato, sempre più ampie, nelle quali il bisogno di “esperienze” va a scapito del possesso di beni. I consumatori orientati verso esperienze di condivisione di beni e servizi trovano gratificante il fatto di entrar a far parte di comunità di soggetti con gli stessi valori, gusti, stili di vita, ecc…; fenomeno, questo, opposto alla cultura del consumismo individuale del XX secolo e, soprattutto, a tutte le certezze maturate nell’ultimo secolo nel campo delle strategie di branding e marketing.
L’economia circolare si sta sviluppando in un contesto di mercato del tutto inedito nel quale il customer journey si è enormemente arricchito e, ad esempio, conferisce ai consumatori sia il potere di condividere la propria opinione e le proprie convinzioni su larga scala, sia la possibilità di attingere informazioni e opinioni non solo esclusivamente dai produttori, ma da una galassia crescente di “recensori” e influencer, più o meno indipendenti, sempre più sofisticati e agguerriti.
In questo contesto le decisioni d’acquisto non maturano più solo in base al valore, la qualità o il prezzo del prodotto, ma si basano anche sulla condivisione di valori e, in particolare, sulla Brand Purpose, ossia la ragione per cui un’azienda opera, un motivo di ordine superiore rispetto al semplice profitto: l’impronta che si vuole lasciare nel mondo. Negli ultimi anni si è compreso quanto i brand non siano più sotto il controllo esclusivo delle aziende che hanno investito per dar loro forma e farli crescere per poi generare ritorno economico: sono diventati di proprietà comune.
Anche in questo caso le competenze manageriali richieste per affrontare queste sfide non sono affatto scontate e per questo motivo l’Osservatorio 4.Manager ha realizzato uno studio dal quale è emerso che il contributo dei manager allo sviluppo di modelli di business circolari sarà fondamentale. In particolare, le figure manageriali strategiche per facilitare lo sviluppo di modelli di business legati all’economia circolare sono: CEO, Innovation Manager, Marketing Manager, Sustainability Manager e HR Manager.
Infine, per lo sviluppo di modelli innovativi legati all’economia circolare nel sistema imprese italiano, le competenze manageriali più importanti risultano quelle di natura «Soft»: cognitive (visione strategica e pensiero creativo); emotive (capacità relazionali e di coinvolgimento dei gruppi di lavoro). Tra le Hard Skills spiccano le competenze digitali/tecnologiche, di marketing e vendite; finanziarie.
Eppure, il numero di manager che in Italia possiede competenze in quest’ambito di attività è ancora estremamente ridotto: circa 300 e in larga misura concentrati nel nord del Paese.
01 luglio 2021