La fuga dei talenti e il ruolo (chiave) delle competenze
Ogni anno la perdita del cosiddetto capitale umano costa all’Italia circa l’1% del PIL. Necessari gli investimenti in istruzione, ricerca, valorizzazione del merito e delle competenze.
Manuela Biti
Presidente ALDAI-Federmanager
Il clima di fiducia delle imprese industriali lombarde sembra continuare a crescere. Lo afferma una recente ricerca di Unioncamere che configura l’anno appena trascorso come positivo per tutto il settore manifatturiero, con una crescita del 6,3% rispetto al 2021, lasciando intravedere nel primo trimestre 2023 un tasso ancora con segno più, pari all’1,2%.
Per guidare però un modello di crescita sostenibile, in termini economici e sociali oltre che ovviamente ambientali, abbiamo bisogno di competenze, parola chiave per l’anno in corso designata anche dalla Commissione Europea di Ursula von der Leyen. Non a caso, infatti, da sempre il capitale umano è stato ed è uno dei principali motori della crescita, dello sviluppo e, più in generale, del livello di civiltà e benessere di una comunità.
Ogni anno, però, migliaia di giovani laureati e ricercatori decidono di lasciare il nostro Paese per cercare opportunità professionali e personali all’estero. Si tratta della cosiddetta “fuga di cervelli”, o brain drain, un fenomeno che ha conseguenze negative sia per l’economia che per la società italiana: basti pensare che la perdita del cosiddetto capitale umano costa all’Italia circa l’1% del PIL ogni anno, senza contare gli investimenti pubblici e privati fatti nella formazione di queste persone.
Quali sono le cause di questa emigrazione di massa? In questo numero della nostra rivista abbiamo deciso di ospitare diversi, e tutti meritevoli, contributi sull’argomento da cui emerge quasi all’unanimità che le motivazioni sono molteplici e spaziano da quelle economiche a quelle culturali. Da un lato, infatti, l’Italia fatica a offrire condizioni favorevoli e competitive per l’inserimento e la crescita professionale dei giovani qualificati, in un mercato del lavoro spesso caratterizzato da una forte precarietà. Dall’altro, abbiamo a che fare con una generazione cresciuta tra Erasmus e globalizzazione, tra web e sogno europeo, alla ricerca continua di contesti stimolanti e innovativi, una generazione per la quale dobbiamo necessariamente rendere il nostro Paese più attrattivo, investendo maggiormente in istruzione, ricerca, valorizzazione del merito e delle competenze, solo per citare qualche aspetto. Anche in questo campo, un ruolo attivo e prioritario lo ricoprono i manager, veri e propri portatori del cambiamento già all’interno della rispettiva realtà aziendale.
Una recente ricerca di Fondirigenti sul ruolo dei manager nella formazione del personale in azienda, in collaborazione con l'Associazione Italiana Direttori del Personale AIDP, Skilla, l’Università Milano Bicocca e l’Università Cattolica, ha confermato il ruolo emergente del manager come "architetto" e "facilitatore" di un contesto favorevole all’apprendimento, orientando i processi formativi dei propri collaboratori e gestendo i diversi "touchpoint" che alimentano l’ecosistema formativo di riferimento.
I manager, continua la ricerca, debbono anche poter disporre di maggiori strumenti per la comprensione del proprio contesto e per la previsione delle tendenze future. Questa competenza è fondamentale per consentire al dirigente di guidare e orientare il proprio team di lavoro nelle transizioni orientate allo sviluppo che interessano l’impresa.
Da tutte queste considerazioni emerge ancora una volta come valorizzare e sostenere in modo continuativo e fattivo il capitale manageriale e imprenditoriale significhi aumentare anche la competitività, la resilienza e la produttività, a vantaggio non solo delle nuove e future generazioni, ma anche e soprattutto del benessere economico e sociale del nostro Paese.
01 giugno 2023