Sistemi Complessi

Gestione dei rifiuti e delle risorse idriche: una modesta proposta di sviluppo industriale

Giuseppe Colombi 

Consigliere ALDAI-Federmanager

Risultato del pensiero unico

Per oltre un trentennio, che si parlasse di globalizzazione, di moneta comune, di funzione civilizzatrice dell’istituzione europea, ci siamo confrontati con un pensiero sostanzialmente unico. Guai a chi avesse espresso posizioni eterodosse.  “Globalizzazione”, “Europa”, “Euro”, “Produttività”, “Mercato” costituivano i dogmi indiscutibili. Salvo poi, oggi, rendersi conto che le certezze sono cadute: i Paesi che grazie all’euro dovevano convergere invece divergono, e l’incertezza globale continua a crescere. In economia, da parte di molti si ripete compulsivamente che la “produttività” non cresce a sufficienza: qualcuno potrebbe obiettare che l’aumento della produttività a produzione crescente induce maggiore competitività, ma a produzione calante genera piuttosto disoccupazione. E che puntare tutto esclusivamente sulle esportazioni distruggendo nel contempo il mercato interno, non funziona più.
Se si guarda all’Italia, passata in pochi decenni dal “miracolo economico” al declino industriale, con l’occhio attento e intelligente della relazione 2018 del Censis, ne scaturisce la visione di un Paese “rancoroso e cattivo”, spaventato dagli altri, invecchiato, caratterizzato da un crescente divario tra nord e sud, incerto e privo di idee sul futuro. 

Campioni nazionali

Qui si sostiene la tesi che questo declino è figlio anche della rinuncia ad utilizzare in funzione strategica i grandi “campioni nazionali”, quelli che a partire dal dopoguerra hanno fatto grande il Paese.
C’è chi ha scritto1 che occorre distinguere tra gruppi come Fiat, che hanno avuto più risorse dallo Stato di quante non ne abbiano rese, e gruppi come Eni ed Enel che hanno dato valore aggiunto netto al Paese. È una tesi che a qualcuno apparirà discutibile, ma è basata su dati e cifre. 
Oggi si direbbe casuale che i due grandi gruppi citati, Eni ed Enel (ma anche Ferrovie dello Stato) mantengano almeno in parte la natura di “aziende pubbliche” e c’è addirittura chi si straccia le vesti per la loro mancata o parziale privatizzazione. Carità di patria vuole che non si nomini ancora un noto istituto di nostrani Chicago Boys. 
In realtà cogliere e valorizzare la valenza strategica delle grandi aziende nazionali non è sempre facile ed immediato e anche il comportamento dei gruppi “parapubblici” non è sempre specchiato come si vorrebbe. Altri Paesi a noi vicini si sono preoccupati di preservare quella valenza, mantenendo uno stretto controllo politico sui loro principali conglomerati industriali.
Oggi per di più esiste un tema urgente, da tutti considerato prioritario: è il tema del lavoro sempre più scarso e la sua conseguenza, la necessità di riprendere, anche in funzione dell’occupazione, lo sviluppo infrastrutturale. Forse, da questo punto di vista, per esempio lasciare impresidiate e aperte ai peggiori vandalismi le stazioni ferroviarie di linee di cintura importanti quali la Orte-Fiumicino e non solo, in termini generali, non costituisce un’economia di Trenitalia, ma un nonsenso. Anche qui siamo messi male: se in Italia tempi e costi delle infrastrutture sono tripli dei corrispondenti esteri, il risultato che ne deriva è che di infrastrutture a parità di soldi noi ne faremo solo un terzo, il divario aumenta e restiamo sempre più indietro.
Complicazione burocratica e legale, influenze della politica, disinformazione e caduta culturale delle classi dirigenti non aiutano di certo. Così diventa un problema anche stendere un innocuo gasdotto o sviluppare un qualsiasi sito industriale. Da questa situazione occorrerebbe uscire in fretta, per quanto sopra esposto.

Rifiuti e risorse idriche: due cicli complessi

Prendiamo ad esempio due problemi che da noi talvolta sembrano irrisolvibili: quello dei rifiuti e quello delle risorse idriche. Questi due settori, in termini di tecnologie coinvolte, di impatto ambientale e di problemi organizzativi e gestionali, sono realtà tutt’altro che banali. 
Occorrerebbe innanzitutto un’univoca visione nazionale: le regole dovrebbero essere omogenee, chiare e uguali dappertutto, come le tariffe dei diversi servizi. Nessuno immaginerebbe un Paese in cui coesistessero tensioni elettriche diverse per l’utenza nazionale o carburanti con caratteristiche incompatibili nelle diverse località. Invece le nostre venti regioni vanno inesorabilmente nella direzione opposta di differenziare anche le normative.
I cicli dei rifiuti e dell’acqua costituiscono sistemi “complessi”, citando da Wikipedia: «Dal XVII secolo in poi, una situazione, un problema, un sistema, è "complesso" se consta di molte parti interrelate, che influiscono una sull'altra». Nei sistemi complessi l’evoluzione non è sempre linearmente definibile e sotto certe condizioni essi degenerano in modo catastrofico, come in effetti vediamo accadere per acqua e rifiuti in certe parti del Paese.

La raccolta dei rifiuti

In termini quantitativi, la quantità di rifiuti solidi urbani italiani ammonta a circa 30 milioni di tonnellate/anno, ovvero 600 kg pro-capite, costituiti da carta, vetro, metalli ferrosi e non, plastiche, oli e grassi di vario genere, materiale umido e compostabile, altri componenti minori combustibili e non.
Già da dimensioni e composizione dei rifiuti appare evidente la necessità di massimizzare la raccolta differenziata e il riciclo dei materiali che li compongono, anche cambiando le modalità di consumo.
Il concetto di rendere “circolari” i cicli produttivi si diffonde con velocità crescente e nessuno accetta più la vicinanza di quelle vere e proprie “bombe ecologiche” costituite dalle discariche indifferenziate. Nei decenni a venire non è da escludere che esse debbano essere considerate vere e proprie miniere, da cui recuperare i materiali utili ivi scaricati alla rinfusa e poi ricoperti di terra.
Quando i materiali sono ben separati, le tecnologie di recupero possono essere le più diverse, ma sono accomunate da una certa sofisticazione tecnica, che va gestita adeguatamente. 
Ma anche quando sono coinvolte tecnologie semplici (si pensi alla trasformazione, dal punto di vista chimico quasi banale, degli oli usati in biodiesel, potenzialmente oltre un milione di tonnellate annue), è la raccolta stessa che implica modalità specifiche, da organizzare e diffondere capillarmente a livello nazionale.
Lasciare ai livelli locali queste incombenze ha portato alla situazione presente: abbiamo un Paese che, percorrendo le strade di scorrimento periferiche, visitando la capitale o altre metropoli al sud e al nord, camminando per le campagne, mostra un’inaccettabile sporcizia generalizzata, con un vergognoso spargimento di rifiuti d’ogni genere. Si può lamentare l’inciviltà, la maleducazione e altro, ma è ipotizzabile che, per affrontare il problema, occorra un capofila unico pronto a mettere in campo i saperi e la logistica necessari.

Project management

In campo industriale, chi abbia un minimo di familiarità con i progetti complessi sa che la loro gestione (il project management) implica conoscenze multisettoriali e capacità tecniche e finanziarie adeguate.
In anni recenti Eni, il grande gruppo petrolifero italiano, ha mostrato un’evoluzione interessante: si direbbe che sia passato dal concetto di “Make profit for shareholders” concentrandosi sul “core business” petrolifero, come il pensiero unico vorrebbe imporre, al recupero di settori meno produttivi situati in aree problematiche dal punto di vista occupazionale. Ecco allora che riprende interesse la “chimica verde” legata a Versalis e addirittura si assiste alla riconversione “bio” di raffinerie prossime alla dismissione, Marghera e Gela. Prima di cadere in facili entusiasmi, occorre ricordare che per ora queste attività sono poco più che sperimentali, implicano forti investimenti e sono ancora lontane dal “break even”. Ma la svolta c’è stata.
La convinzione qui esposta è che probabilmente occorrerebbe alzare il tiro e chiedere ad Eni di farsi carico di diventare il “project manager” dell’intero ciclo dei rifiuti in Italia, gestendo con approccio integrato la raccolta, e la logistica, i siti, le tecnologie di conversione, il recupero e il riutilizzo dei materiali.
Facile a dirsi, meno a realizzarsi, tenendo conto degli interessi stratificati delle “multiutilities” piccole e grandi già sul mercato, dei localismi e delle resistenze di vario genere che un simile approccio incontrerebbe: solo una precisa volontà politica, che si mettesse di buona lena a spianare la strada a questo disegno complessivo, potrebbe avviare il processo.

A chi il ciclo dell'acqua?

Ugualmente, come avevamo già ipotizzato in un precedente articolo2, anche il ciclo delle risorse idriche, captazioni, potabilizzazioni, acquedotti, reti, impianti di trattamento di effluenti liquidi, si gioverebbe di un simile approccio unitario, nello spirito del referendum del 2011 in cui 26 milioni di italiani si erano espressi a favore dell’“acqua pubblica”. Un Paese civile non può dimostrarsi incapace di fornire ai suoi abitanti, anche in estate nel sud riarso e nelle isole, gli almeno 2-300 litri di acqua potabile giornalieri che sono necessari. E, soprattutto non può lasciar gestire a personale locale spesso inadeguato gli 8.000 impianti di trattamento biologico che oggi, nella maggior parte dei casi, non funzionano affatto bene.
Questi sono settori in cui sono importanti la centralizzazione delle competenze e le economie di scala.
E chi meglio di Enel, che in passato ha gestito brillantemente persino la difficile uscita dal nucleare, sarebbe nella posizione di assumere il ruolo di gestore manageriale di un simile progetto?
Se davvero, come molti sostengono, il Paese ha bisogno di investimenti infrastrutturali, di miglioramento dei servizi e della qualità di vita ad essi connessa, di nuova occupazione e di taglio delle posizioni parassitarie esistenti, non avrebbe senso approfondire questa ipotesi? Eni ed Enel, tra l’altro, hanno anche le capacità finanziarie per gestire nel tempo progetti così vasti: la domanda è piuttosto se si concorda sull’opportunità di affidare a loro questi strategici settori nazionali.

Volere è potere

È evidente che oggi rivalutare la funzione “programmatoria” dello Stato, considerando le condizioni in cui versa la macchina pubblica, è scommessa difficile. D’altra parte, aver trascurato questi settori, lasciandoli a gestioni locali o al tanto decantato “mercato” che interviene spesso triplicando le tariffe, ha portato ai disastri attuali.
Per ora, definire se la gestione globale dei due settori citati da parte dei campioni nazionali possa essere ottenuta mediante la costituzione di due “agenzie”, mediante acquisizioni, cessioni o compartecipazioni, esula dagli scopi di queste righe. Solo quando si fosse convenuto o meno sull’opportunità di procedere in questo senso dovrebbero seguire i dettagli economici e legali, perché, abusando ancora dell’inglese, “where there is a will, there is a way”. Ovvero: le soluzioni si trovano, quando si vuole. E su questo il dibattito è aperto.
Di recente il noto Ferruccio De Bortoli3, trattava l’idea dell’acqua pubblica come una pericolosa mistificazione da rigettare per la sua impraticabilità e i costi connessi: qui ci si sforza di sostenerne invece la razionalità, se gestita in modo univoco e con visione nazionale. 
Si può ritenere che le tesi di quel giornalista non vadano prese per oro colato, ma che, come per molte vicende di questo mondo, il risultato di un intervento sia dipendente da priorità e scelte politiche, e che se ne debba dibattere in modo non ideologico.
Sempre che, naturalmente, qualcuno abbia voglia di discutere, il che non è scontato.
Note
(1) M. Mucchetti, “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli, 2003, pagg. 29-30.
(2) G. Colombi, “Controcorrente: e se proponessimo Pubbliacqua?”, Dirigenti Industria, ottobre 2017, pagg. 38-39. 
(3) F. De Bortoli, “Lo stato dell’acqua”, Corriere Economia del 4 marzo 2019, pag. 2.
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