Un nuovo modo di "essere" impresa

Già Sofocle oltre 2.000 anni fa aveva intuito e descritto quanto l’uomo poteva essere combattuto nella scelta tra le leggi umane e le leggi divine o universali. Antigone si ribella alla legge del potere riconosciuto, alla legge del re, perché “sa” (e lo sa nel profondo del suo cuore) che al fratello deve essere concessa una dignitosa sepoltura. Per Antigone ciò sarà più importante della sua stessa vita e, al tempo stesso, le conseguenze della scelta di Creonte ricadranno su di lui e sui suoi cari.

Andrea Rovelli  

Consigliere ALDAI e Consigliere nazionale Federmanager

Sofocle sembra aver anticipato di due millenni quanto oggi ha trovato consapevolezza nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e sta progressivamente permeando le società civili in tutto il mondo.
Anche oggi nella realtà delle cose di tutti i giorni, l’uomo si trova a dover distinguere, prima ancora di scegliere, quale sia la legge umana e quale quella universale. Si tratta di dover valutare se la legge umana è in accordo con i valori universali e a dover decidere, se così non fosse, a quale legge aderire e a come comportarsi di conseguenza.
Un esempio memorabile si trova nel capolavoro di Victor Hugo. Ne “I Miserabili”, il poliziotto Javert, incapace di conciliare la propria coscienza di uomo con il suo ruolo di tutore della legge, si toglie la vita. Anche Hugo lascia intendere come non vi sia dubbio tra quale sia la legge da seguire e come tragico possa essere il destino di chi ostinatamente cerca di far prevalere per tutta la vita la legge umana e si accorge improvvisamente dello sbaglio fatto.
Questa contrapposizione si può in qualche modo vedere rappresentata anche nell’evoluzione dell’attuale modello di capitalismo e di impresa tra le leggi e le regole del business e i valori universalmente riconosciuti.
Obiettivo dell’impresa nel modello capitalistico è stato fino ad oggi la massimizzazione del profitto e pertanto si riconoscono imprenditori e dirigenti come bravi, capaci e “meritevoli” tanto più sono capaci di massimizzare il profitto d’impresa. 
Questo modo di intendere l’impresa comincia però a porre oggi seri interrogativi sulla sua corretta interpretazione. Tanto per cominciare, siamo sicuri di cosa si debba intendere per “profitto”? In modo più semplice, banale, individualista e opportunistico il profitto può essere inteso in termini di guadagno puramente monetario e oltretutto a breve o brevissimo termine, ciò può comportare rischi per la sopravvivenza stessa dell’impresa nel medio lungo termine, grandissimi guadagni individuali per i top manager e fortissime perdite per gli azionisti.
Un nuovo modo di intendere il profitto può essere quello di considerarlo come la somma dei benefici ricevuti da tutti i suoi stakeholder (dipendenti, azionisti, fornitori, clienti, cittadini, istituzioni ed enti locali…) e dal contesto esterno, in termini tangibili (anche monetari) o intangibili (qualità della vita, sicurezza, diritti umani, welfare, rispetto dell’ambiente, ecc.). Già oggi il business d’impresa considera questi aspetti nella sostenibilità d’impresa, nella corporate social responsability, nell’attenzione all’ambiente e nel welfare, ma li considera ancora, in parte, come un mezzo per massimizzare maggiormente il profitto inteso sempre solo come guadagno monetario per gli azionisti.
Bisognerebbe andare oltre, fare un passo in più. Il profitto dovrebbe essere misurato invece come risultante di un maggior guadagno monetario per gli azionisti, una maggiore occupazione di lavoratori, una crescita dei salari, una migliore qualità della vita, un rispetto dell’ambiente e del territorio, una sostenibilità a lungo termine. L’utile di bilancio dovrebbe essere un indicatore capace di rappresentare in termini quantitativi e misurabili tutti questi aspetti e le imprese in grado di ottenere maggiori risultati dovrebbero essere premiate con incentivi, sgravi fiscali, capitali a prestito a tassi di interesse ridotti, ecc.
Oggi l’attenzione degli investitori di fatto sta spingendo il business in questa direzione anche se in modo forse più inconscio che consapevole ed eventi quali il “climate change” spingono a considerare modelli di impresa e di business meno individualisti.
Se il modello d’impresa cambia in questa direzione analogamente dovrà cambiare il modello di dirigente.
Il dirigente “meritevole” dovrà essere “capace” di gestire e massimizzare tutti gli aspetti concorrenti a questo nuovo tipo di profitto e dovrà avere skill diverse se non, in alcuni casi, opposte a quelli attuali. Nella logica ancora attuale di perseguimento di obiettivo monetario a breve termine il dirigente corre il rischio di dover scegliere tra le “leggi” d’impresa e alcuni valori universalmente riconosciuti in quanto le prime non coincidono integralmente con i secondi.
Analogamente è necessario riconsiderare il senso del termine tanto abusato e strumentalizzato di “meritocrazia”. 
È giusto premiare il merito? Certo. Ma è demagogico e semplicistico porre il tema in questi termini. Più difficile e complesso infatti risulta definire cosa si intende per “merito” all’interno della logica d’impresa.
A seconda del modello e degli obiettivi d’impresa la definizione di merito può essere completamente diversa se non addirittura contrapposta. In tutti i casi comunque la “meritocrazia” può essere controproducente se non correlata strettamente ai valori etici e se gli obiettivi d’impresa ed i valori etici non sono chiaramente espressi, coincidenti e realmente perseguiti.
Una non coincidenza di obiettivi e valori etici rende del tutto vuoto e privo di valore il termine “meritocrazia”. Posso infatti considerare meritevole il dirigente che persegue obiettivi d’impresa calpestando valori quali l’onestà, il rifiuto della corruzione, il rispetto della persona, ecc.?
Il capitalismo fino ad oggi trovava la sua ragione di essere nella contrapposizione con l’ideologia comunista, ma ora che questa contrapposizione è venuta meno il capitalismo ha messo a nudo i suoi limiti tra i quali l’incapacità di garantire uno sviluppo sostenibile nel tempo e un’equa distribuzione della ricchezza contribuendo ad accrescere l’instabilità sociopolitica in Europa e nel mondo.
Un’evoluzione della definizione e del concetto di profitto d’impresa nella direzione sopra indicata può contribuire a superare i limiti del capitalismo attuale, spingendo verso una società più “ricca” di una “ricchezza” diffusa e distribuita, assicurando il perseguimento di un benessere sociale collettivo e garantendo la sostenibilità globale del modello di sviluppo.
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