L’inammissibilità del licenziamento del dirigente: un pronunciamento della cassazione
Dei cinque motivi di ricorso proposti, la Suprema Corte, su richiesta del Pubblico Ministero, ne ha accolti due
Di Mauro Nicoletti
Una recente sentenza della Corte di Cassazione, riformando gli esiti dei precedenti gradi di giudizio, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento di un manager che aveva segnalato fatti compiuti nella gestione aziendale suscettibili di possibili riflessi penali. La sentenza 17689/2022 è stata emessa a fronte del ricorso presentato da un Direttore Generale, licenziato per giusta causa perché, in occasione della riunione del Consiglio di Amministrazione per l’approvazione del progetto di bilancio relativo a un periodo anteriore alla sua assunzione, presentò e diede lettura di una relazione, in cui manifestava critiche allo stesso bilancio, prospettando l’ipotetica commissione di fatti penalmente rilevanti nella gestione aziendale.
La giusta causa di licenziamento, sostenuta dalla Società datoriale e avallata dal Tribunale di Mantova e dalla Corte d’Appello di Brescia, risiederebbe nell’infondatezza delle critiche esposte che avrebbero anche carattere diffamatorio nei confronti degli amministratori. Dei cinque motivi di ricorso proposti, la Suprema Corte, su richiesta del Pubblico Ministero, ne ha accolti due, il secondo e il terzo, rinviando alla Corte d’Appello di Milano per “…un nuovo esame della fattispecie, uniformandosi ai principi di diritto enunciati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità…”.
Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso, le decisioni di merito della Cassazione hanno considerato che, pur sussistendo la “…parziale fondatezza delle critiche sollevate dal dirigente, nonché i rilievi del consulente di parte da questi nominato…”, nella relazione del manager le ipotesi di reato fossero solo astrattamente configurabili, senza alcun intento calunnioso o attribuzione diretta di responsabilità a soggetti aziendali personalmente individuati. Si sofferma la Cassazione sull’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero, che trova le sue tutele sia nell’art.21 della Costituzione che nell’art.1 dello Statuto dei Lavoratori. Libera manifestazione del pensiero, che non può costituire violazione dell’obbligo di fedeltà del lavoratore, sancito dall’art. 2105 del Codice Civile, purché non calunniosa.
Più interessante e articolato nelle motivazioni l’accoglimento del terzo motivo di ricorso, che si incentra sul riconoscimento, nei precedenti gradi di giudizio, dell’errata applicazione o violazione dell’art. 2192 c.c. che, come noto, dispone in materia di responsabilità degli amministratori nei confronti della società. Viene pertanto contestata la giustificatezza del licenziamento del manager. La Suprema Corte ha infatti preliminarmente riconosciuto il rispetto da parte del dirigente degli elementi formali previsti dalla norma in questione – segnalazione in occasione della riunione del consiglio di amministrazione, notiziando, al contempo, il presidente del collegio sindacale – senza che sia obbligatorio il riferimento ad atti definitivi, considerato che la norma è posta a tutela di una corretta e lecita rappresentazione dei fatti aziendali e deve quindi consentire l’eventuale intervento in rettifica degli elementi censurati.
Oltre che per i predetti motivi – “…rispetto dei requisiti di continenza formale e sostanziale…”, sul punto della giusta causa di licenziamento, è stato posto a base della decisione il riconoscimento del diritto al dissenso esercitato dal dirigente in sede di consiglio di amministrazione, diritto tutelato dallo stesso art.2392. È infatti la “peculiare posizione” del soggetto – dirigente e direttore generale dell’azienda – che ha sollevato le critiche al bilancio che, in base all’art. 2396 del codice civile, ne legittima, nelle sedi proprie di cui all’art 2392 del c.c., l’esercizio del diritto al dissenso, anche al fine di non incorrere in responsabilità verso la società per atti e comportamenti degli amministratori.
In questi casi, purché
il dissenso venga espresso con argomentazione non pretestuosa e con modalità
non diffamatorie o offensive esso non può, di per sé, costituire giusta causa o
motivo di licenziamento.