Life in United Kingdom after Brexit

Effetti economici a 6 anni dalla Brexit

Ugo Sogaro Corrispondente dall’Inghilterra di Federmanager Venezia

Ugo Sogaro

Corrispondente dall’Inghilterra di Federmanager Venezia

Il 23 giugno 2016 il Regno Unito ha votato circa la permanenza o meno nell’Unione Europea. La risposta al quesito referendario (un semplice Leave/Remain) è stata 51,9% a favore del Leave, con una partecipazione del 72,2% dei votanti (una percentuale leggermente più alta di quella che solitamente si manifesta durante le elezioni politiche). David Cameron, il Primo Ministro in carica, che era per un accordo con l’Unione Europea piuttosto che un distacco, dà le dimissioni. Gli succede Theresa May, anche lei per l’accordo ma diventata una tiepida “Brexiteer” quando diventa Primo Ministro per poter tener unito il partito (attenzione: il partito, non il governo), a cui tocca il compito di negoziare i termini del divorzio. 

Il compromesso negoziale da lei perseguito non soddisfa l’ala dura del partito Conservatore che cambia cavallo e punta su Boris Johnson, ex sindaco di Londra ed ex ministro degli Esteri da poco dimissionato per scarso rendimento (!!!). Johnson, uomo sempre opportunista, che famosamente durante la campagna referendaria scrisse sia un articolo in favore del Leave che uno a favore del Remain, si riconfigura per l’“Hard” Brexit (ovvero tagliare ogni legame con l’E.U.), che farà ancora vincere il partito Conservatore alle elezioni dell’anno successivo con una maggioranza incrementata. 

MOTIVI DELLA VITTORIA DEL LEAVE: 

I “Leavers” hanno fatto una campagna con un fronte compatto, con slogans brevi e semplici, puntando su sentimenti anti- immigrazione e controllo delle frontiere, promesse di liberi accordi commerciali con nazioni extra E.U., difesa di comparti economici a valore emotivo (tipico è stato quello della pesca che vale circa lo 0,3% del P.I.L.), risparmio delle contribuzioni alla E.U., il tutto con uno sfondo di nostalgia dell’Impero. 

EFFETTI ECONOMICI A 6 ANNI DALLA BREXIT: 

attualmente il Regno Unito importa -29% dalla E.U. ed esporta -41%. Verso i Paesi extra E.U. l’aumento dell’export è solo dell’1.7%. La City invece (il settore a cui il governo teneva di più) ha invece tenuto e non si è verificata la temuta migrazione verso Parigi/Francoforte/Amsterdam (nonostante i tentativi di questi ultimi di attirare le aziende della City). C’è anche da dire che al momento della Brexit nessuno poteva prevedere la Pandemia e l’invasione dell’Ukraina. Dal punto di vista economico, quind il bilancio dopo 6 anni non è certamente positivo,i, ma non c’è stato neanche il tracollo paventato. Più seri, secondo chi scrive, sono gli effetti geopolitici della Brexit. 

Ricordando che il Regno Unito è politicamente composto da 4 nazioni (più alcune dipendenze dirette della Monarchia) vediamo come queste hanno votato: La Scozia ha votato Remain, l’Inghilterra ha votato Leave con però Londra Metropolitana (11 milioni di persone) che ha votato Remain, Il Galles ha votato Leave ed il Nord Irlanda ha votato Remain. Fra le dipendenze, Gibilterra ha votato Remain. Questo Governo (ed i futuri) si trova ora, non inaspettatamente, di fronte a seri problemi di coesione di queste nazioni. Il primo problema, ed il più difficile da trattare, è quello del Nord Irlanda: nell’aprile del 1998 venne concluso un accordo internazionale fra Regno Unito ed Irlanda con gli USA come garanti, per mettere fine a decenni di quella che di fatto è stata una guerra civile in Nord Irlanda. Una delle clausole stabilisce che fra Nord Irlanda ed Irlanda non ci debbano essere nè confini fisici nè posti di controllo o dogane. 

Questo andava bene finchè ambo le parti facevano parte della E.U., ma ora non è più così. L’accordo divorziale E.U.-Regno Unito aveva un protocollo specifico dedicato a questo problema, ma la sua attuazione è indigesta al partito Unionista dell’Irlanda del Nord perchè di fatta instaura un confine fra Irlanda del Nord e Gran Bretagna (Inghilterra, Galles, Scozia). 

A meno di soluzioni immaginifiche per risolvere questo problema, le tensioni fra E.U. e Regno Unito aumenteranno, ma aumenterà anche le tensione fra Irlanda del Nord ed il resto del Regno Unito. Il secondo mal di testa per Boris Johnson è la Scozia. La Scozia si è unita all’Inghilterra nel 1707 con un matrimonio di interesse. Gli scozzesi cedettero sovranità in cambio dell’accesso ai mercati del nascente Impero economico Inglese. Da circa venti anni il partito Nazionale Scozzese domina il panorama politico della Scozia. È un partito di raccolta il cui ultimo scopo è quello di passare dalla autonomia (che oggi è molto spinta) alla completa indipendenza. “Già dieci anni fa gli scozzesi ebbero un referendum sull’indipendenza, che risultò nella permanenza nell’Unione. Ora però con la Brexit la situazione è cambiata (così dicono gli scozzesi). 

Il Governo Scozzese ha fissato per il 19 ottobre 2023 un secondo referendum ed in caso di vittoria chiederà l’ammissione all’E.U.” Con una delle sue tipiche uscite, Johnson ha reagito a questa eventualità con un “sopra il mio cadavere” ma è anche vero che a capo del governo scozzese c’è Nicola Sturgeon, una signora decisa e determinata, e che la Scozia non ha l’intricata situazione confessionale del Nord Irlanda. Non di meno un’eventuale separazione presenta notevoli problemi: Il Nord della Scozia è la sede del deterrente nucleare britannico e di basi navali strategiche. Rilocarle comporterebbe tempi lunghissimi e costi enormi. Inoltre nella costa Est della Scozia è localizzata l’industria petrolifera Britannica. Il suo venirne meno darebbe un duro colpo all’autonomia energetica del Regno Unito. Per quanto riguarda la Scozia, però, Johnson ha un appoggio non esplicito da parte della E.U., che è tiepida circa l’indipendenza della Scozia per timore di innescare altri processi al suo interno (tipo Catalogna, ad esempio). DUNQUE, LA LIFE AFTER BREXIT VA IN REALTÀ VERSO UN “DIS-UNITED KINGDOM”.