Breve storia della mobilità in montagna
Spigolature estive in libertà
Di Gianni Soleni
Federmanager Venezia
In principio era “la scarpa” (intesa come paio di scarpe). Ma qual era il “brand”?
Nessun brand, era il paio di scarpe artigianali che i genitori mi assegnavano, in genere dopo essere state usate da mio fratello maggiore che era cresciuto di piede.
Il marchio non aveva alcuna importanza, probabilmente nemmeno esisteva. Con quell’unico paio di scarpe, le stesse usate in città, si partiva negli anni a cavallo tra ’40 e ’50 per la “villeggiatura” verso il fantomatico paese carnico (meglio dire “ciarniel”) di Paularo, allora totalmente ignoto ed oggi invece… quasi, salvo usare Google Maps per cercarlo.
Giunti a destinazione dopo un avventuroso viaggio che durava dalla mattina presto fino a sera (tre treni diversi da Mestre a Tolmezzo e infine una corriera di quelle col “naso” ed il rimorchietto fino a Paularo), la Catina, indimenticabile padrona di casa, 40 kg bagnata, si caricava nella mitica gerla i (pochi) bagagli per portarli alla sua/nostra abitazione condivisa per un mese.
Era la stessa gerla che lei aveva usato qualche anno prima per rifornire di vettovaglie e materiali i partigiani dislocati nei boschi e sulle montagne attorno al paese.
Il giorno dopo, le scarpe cittadine venivano accantonate e sostituite nel giro di poche ore dalle famose “papusse” o “scarpets” che la stessa Catina confezionava magistralmente e su misura con panno di risulta e preziosi pezzi di copertoni di bicicletta, il tutto tenuto insieme con spago.
Se cercate su internet, leggete che queste calzature erano “tecnologicamente perfette”, ecologiche, esempio di “economia circolare” e che oggi sono ancora prodotte da Armani o simili come costosi prodotti “di tendenza”…
Queste papusse ci accompagnavano nelle camminate che comunque riuscivamo a fare, pur non dotati di smartphone carichi di App di geolocalizzazione, gps, guide interattive, meteo radar, webcam, contapassi, contacalorie e modernità oggi indispensabili (e che come risultato pratico hanno moltiplicato all’ennesima potenza gli interventi delle squadre di salvataggio con elicotteri e altro…).
Le papusse andavano bene per camminare sull’erba, sul (poco) asfalto, su percorsi ghiaiosi o rocciosi, dovunque per tutto il periodo di villeggiatura (non si chiamava ancora “ferie”).
Successivamente arrivarono le novità, a partire dalle famose Superga (le stesse scarpe usate a scuola per la “ginnastica”), scarpe di tessuto e suola (di spessore millimetrico) di gomma, che anche se inadatte ci davano la sensazione di essere degli esseri “tecnologicamente avanzati”.
L’esplosione del miracolo economico e la nascente CEE (Comunità Economica Europea) ci fecero conoscere le “pedule” (le invidiate Adidas innanzitutto) e le scarpe specializzate per “walking”, caldeggiate da Nancy Sinatra, (anzitutto le Nike, prodotte con modalità vergognose in estremo oriente, dove gli USA, pur sconfitti militarmente in Vietnam ma chissenefrega dei 60mila giovani soldati morti come danno collaterale, avevano vinto la vera guerra economico-commerciale
Nel rapido corso dei successivi decenni, le conoscenze tecnologiche dei materiali (delle quali anche le nostre ditte trivenete erano e sono pienamente in possesso, ponendosi sicuramente tra i leader mondiali del settore) hanno permesso lo sviluppo progettuale e tecnologico di mezzi di vestiario e di calzature immensamente più confortevoli di quelle di cento (o anche meno) anni fa.
Innovazione unita a Passione nell’aggiornamento continuo del prodotto permettono di avere a disposizione scarpe (intese in senso lato dal punto di vista sportivo) di elevatissimo livello e confort. Chissà come si comporterebbero i nostri grandi scalatori del passato (Cassin, Comici, Piaz solo per citarne alcuni, che vediamo nelle foto d’epoca in parete ben bardati con pantaloni alla zuava e giacche di fustagno) di fronte all’attuale abbigliamento di montagna oggi disponibile… probabilmente increduli lo vedrebbero come fantascienza...
La successiva rivoluzione copernicana scattò attorno al cambio di millennio, quando si cominciò a far venire l’acquolina in bocca ai “villeggianti” amanti della montagna con l’invenzione della mountain-bike come insostituibile mezzo di locomozione al posto della tradizionale, faticosa, impegnativa mobilità a piedi.
Soprattutto quando, per arrivare ad incamerare un po’ di euro anche da questa nuova fonte di reddito, si iniziò a permettere di transitare “in bici” anche sui sentieri in quota, condividendoli con scomodi anziani pedoni o famiglie con bambini: talvolta, si “istituzionalizzava” l’uso delle bici sui sentieri tirando una striscia di cordino volante e dividendo il percorso (già stretto e spesso roccioso) in due millimetriche parti longitudinali… Una vera genialata con conseguenti “incidenti”, involontari naturalmente, ma dovuti all’ineluttabilità del progresso (P maiuscola o minuscola?).
Certo che non erano molti i turisti atletici in grado di affrontare un impegno “mountain-ciclistico”.
Mai paura, cari villeggianti! Ecco il darwiniano passo evolutivo più recente, l’introduzione della “e-bike”, in grado di far salire i nostri eroi senza fare una vera pedalata (e senza una sola goccia di sudore) dal fondo valle fino ai passi dolomitici o ai rifugi più elevati e impegnativi.
Una specie di potente “mosquito” elettrico chiamato ufficialmente ancora bicicletta, con gomme spesso adatte alla Parigi-Dakar, che nei modelli più dotati ed avventurosi somiglia più a una Ducati o una Aprilia moto GP che non ad una snella bicicletta.
In compenso, questa innovazione ha reso possibile anche a cinquanta-sessantenni panciuti evergreen (circonferenza anche 120 cm) e relative giovanili consorti di percorrere con equilibri pericolosi ed incerti le ciclovie e i sentieri di montagna, col solo obbligo di “far vedere” che nei punti più irti e impegnativi bisogna dare una sana e decisiva pedalata, degna di Tadey Pogacar. Naturalmente, è d’obbligo accompagnare il non comune sforzo fisico prodotto con un psico-finto profondo respiro…
Attendiamo ora (ma già si è visto in avanscoperta) l’inserimento nei percorsi montani del “e-monopattino”, il massimo della sicurezza (e dell’incoscienza).
Il progresso non ammette limitazioni o freni. Nel frattempo, languono inutilizzati i cosiddetti “percorsi vita” che fiancheggiano molti sentieri, simboli ormai superati di un tentativo fallito di recupero fisico collettivo.
Una delle conseguenze positive della questione è nell’evoluzione del tipo di alimentazione probabilmente seguito da questo crescente numero di non-atleti (a quando le gare olimpiche di e-bikes?). Infatti, per ovviare all’eccessiva misura del giro di pancia causato dal sempre minor impegno fisico richiesto (“vado in montagna per fare moto e calare qualche chilo”), basta osservare i numerosi innovativi spot televisivi nei quali vengono proposte leggendarie diete alimentari che “ci piacciono così” in grado di far perdere in poche settimane dieci chili o giù di lì, con l’ulteriore vantaggio che i piatti arrivano pronti e cotti in casa, ed evitano anche la gravosa “fatica” di girare per supermercati, cucinare, etc.
Alla faccia dell’attività fisica… Intanto cerchiamo, per completare lo sforzo e chiudere il cerchio, anche qualche indirizzo di palestra riduci-grasso: purchè sia raggiungibile con una e-bike!
26 settembre 2024