The dark side of the moon university of Padova

(dove DARK va inteso come “oscuro, sconosciuto” e non come tenebroso, cupo o torbido…)

Gianni Soleni  

Federmanager Venezia
In memoria di SILVANO PUPOLIN, professore Emerito del Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione, ma soprattutto indimenticato amico.
Cari Dirigenti Nordest (rivista e lettori), nel numero scorso ho potuto leggere con interesse e piacere due articoli (autori Alberto Pilotto e Filippo Tanganelli) che, in forma rispettivamente personale e istituzionale, celebrano gli 800 ANNI DELLA NASCITA DELLA UNIVERSITÀ DI PADOVA
Su questo argomento mi sono sentito subito un po’ coinvolto e corresponsabile, probabilmente come tutti coloro che hanno speso un discreto numero di anni giovanili all’interno dell’Università. 
Per questo motivo desidero contribuire alla sua conoscenza (dell’Università) non tanto in termini ufficiali, storici o istituzionali, ma sulla base dell’esperienza di studio che ha coinvolto me ed un gruppo di compagni di studi – una decina circa – con provenienza scolastica e sociale analoga alla mia. 
Innanzitutto, eravamo studenti “periferici” e “pendolari” in quanto non residenti nella città del Santo o nella sua immediata periferia, e d’altra parte non eravamo in grado di sostenere le spese per poter soggiornare in uno dei tanti collegi o appartamentini o camere per studenti. 
In sintesi, ecco di seguito la descrizione della nostra avventura padovana. Esaminiamo per primo il motto UNIVERSA UNIVERSIS PATAVINA LIBERTAS (“Tutta intera, per tutti, la libertà nell’Università di Padova”, vedi Alberto Pilotto): veramente azzeccato per noi che ci presentammo alla sua porta a metà anni ’60, subito dopo che l’accesso all’Università era stato liberalizzato per tutti (come dice il motto), anche per chi proveniva da istituti tecnici (tipo Rossi di Vicenza, Pacinotti di Mestre, Marconi di Padova, etc) o simili. 
Fino all’anno prima l’accesso era invece ristretto a chi superava un non facile esame di entrata selettivo ed obbligatorio per i diplomati periti tecnici, essendo invece il suddetto accesso libero per i tutti gli studenti provenienti dai licei. 
Una apertura storica, legata all’evoluzione politica e sociale di quegli anni, che con il cosiddetto “ASCENSORE SOCIALE” apriva possibilità di studio e di carriera finora impensate e precluse a buona parte dei giovani, quali quelli del “mio” gruppo, usciti dall’Istituto tecnico e figli di operai, impiegati, ferrovieri, etc. 
Questa apertura “improvvisa” portò anche contraccolpi pratici negativi, quali l’aumento improvviso (imprevisto?) del numero di studenti e la carenza di spazi e di aule, specie per il biennio che divenne particolarmente “selezionatore” e severo. 
Non pochi erano gli studenti che arrivavano in aula con un seggiolino pieghevole portato da casa per garantirsi un posto a sedere, anche se senza poter veder la cattedra, la lavagna ed il docente: per molti altri, solo posti in piedi, e per qualcuno solo fuori dell’aula. 
La fatica era notevole per noi “pendolari” che provenivamo col treno dall’area veneziana o trevigiana (ma anche da zone analoghe). 
Le difficoltà pratiche erano legate non solo allo studio delle materie ed ai conseguenti esami, ma anche alla dispersione logistica delle aule di insegnamento (distribuite tra il Bò ed gli Istituti situati in zona Fusinato e Porta Portello), che costringevano a continui andirivieni su e giù lungo un percorso di un paio di chilometri da farsi nei limiti del leggendario quarto d’ora accademico: non di rado inoltre la dispersione degli orari degli insegnamenti ci costringeva a permanere nella città patavina da mane a sera. 
La provvidenziale mensa “dei ferrovieri” (e in seconda battuta la mensa CGIL) situata accanto alla stazione ferroviaria era diventata un po’ la nostra seconda casa: in essa pranzavamo decentemente a prezzi accessibili, e potevamo sostare in attesa della ripresa delle lezioni. L’attesa forzata permetteva l’organizzazione di favolosi tornei di scopone, tressette, briscola e quant’altro. Tornei che si svolgevano anche durante il viaggio in treno (la mitica elettromotrice Ale 790) tra Padova e Mestre o viceversa, spesso seduti sulle cassapanche in legno delle zone riservate a bagagli e valigie. Tornei dove venivano messi in palio un “cicheto” e un “bianco” da BEPI VENESSIAN (il nome parla chiaro) a Mestre.
Posso garantire personalmente che il trantran giornaliero da casa alle aule di lezione non era per niente leggero; sicuramente una canzone balzata al successo in quegli anni (“Venti km al giorno” di Nicola Arigliano) prese spunto dal nostro incessante andare avanti e indietro.
Il caro ed indimenticato amico SILVANO PUPOLIN (futuro ingegnere, professore emerito di fama internazionale, Chairman di facoltà per alcuni anni, ma qui mi piace ricordarlo come figlio di operaio, ragazzo allegro, determinato e pieno di volontà e di speranze) in particolare percorreva ogni giorno in bicicletta il tragitto andata/ritorno casa-stazione, oltre 10 km, sole o pioggia o nebbia o neve che fosse: il resto per avvicinarsi a 20 km lo aspettava come detto con il percorso tipo “walking” in quel di Padova. 
Tutto ciò ebbe anche risvolti positivi: contribuì a sviluppare una forte socialità tra di noi ed alla creazione di un vero e proprio spirito di corpo, utile anche nello studio (ripetizioni reciproche, supporto agli ammalati, etc)
Questo stato di cose ci portava ad essere praticamente estranei alla città di Padova: di essa conoscevamo a menadito i percorsi del “triangolo magico”stazione FS/Palazzo Bò/Istituti in zona Fusinato-Portello, per il resto la nostra conoscenza cittadina era ai minimi di legge
Sentivamo parlare di un mitico e leggendario LIVIANO (mai capito dove fosse realmente collocato) dove leggiadre e appetibili donzelle seguivano corsi a noi inaccessibili (lettere, storia, classici ed amenità simili). 
Per noi candidati ingegneri di allora le quote rosa erano ancora di là da venire, in una facoltà praticamente riservata a rudi maschi (nel nostro corso ho memoria di UNA sola presenza femminile, una cara amica greca di Creta in sostanziale esilio in Italia nel periodo della dittatura dei Colonnelli)
La crisi arrivava in genere attorno al terzo/quarto anno. Lontano era il giorno in cui eravamo salpati, lontano era l’agognato approdo, ci sentivamo dei Cristoforo Colombo spersi nel mare procelloso percorso da iceberg-esami continui ed infiniti, lungo un viaggio difficile e dal finale imprevedibile: unico premio “sicuro” era il SERVIZIO MILITARE OBBLIGATORIO (una quindicina di mesi di soggiorno nelle caserme statali, gratis e anzi lautamente remunerati). 
Il tutto mentre i compagni diplomati che avevano evitato l’avventura universitaria ci salutavano: loro alla guida di una Vespa o di una mitica Fiat 500 frutto dei primi stipendi e di un posto di lavoro a tempo indeterminato (a quei tempi si usava ancora questo strano tipo di contratto…), assieme alla loro potenziale morosa, noi con il futuro tutto da disegnare e la paghetta omnicomprensiva del papà. Fortunatamente nel lungo e travagliato triennio di specializzazione tra noi era presente uno studente che di cognome faceva “INGEGNERI” a tirarci su il morale: ad ogni appello nominale, quando veniva chiamato il suo nome, scattava una “OLA” generale e tutti in piedi gridavano un beneaugurante “Presente”! 
Credo che il termine “RESILIENZA” oggi di moda sia nato in quei frangenti, quando noi impavidi “ciclisti” salivamo la nostra personale “Alpe d’Huez” ognuno con il suo ritmo, senza scatti pericolosi ma senza scoraggiarsi, alcuni scalatori, altri passisti, ma nessuno rinunciatario. 
Anche gli avvenimenti padovani del leggendario ’69 in realtà ci toccarono solo per la tangente: i nostri Istituti erano del tutto periferici (zona Porta Portello, via Gradenigo etc), e noi come detto eravamo decentrati: soprattutto, il nostro obiettivo era il raggiungimento della laurea per poter aspirare ad un degno (ma in quel momento ancora incerto) posto di lavoro dove poter dare sfogo alle nostre (più o meno) intelligenze e capacità. 
Nel frattempo cercavamo di arrabattarci con qualche borsa di studio, qualche riduzione/esenzione dalle tasse, qualche ripetizione o supplenza nelle scuole di casa nostra e così via. 
Per il nostro gruppo, anche i giorni gaudiosi della FESTA DELLE MATRICOLE si traducevano nell’agghindarci al meglio possibile con tabarri e feluche color nero-ingegneria, e battere per alcuni giorni porta a porta i negozi di singole località prese di mira nella terraferma veneziana, dove promettevamo (che facce toste… o si chiama “marketing”?…) di portare in loco grandi manifestazioni con carri, canti e feste gaudiose in cambio di un più (raro) o meno (frequente) generoso obolo, strettamente in contanti e senza ricevuta. 
Il risultato era una cena collettiva finale in qualche trattoria casalinga, alla quale erano magnanimamente invitate morose, fidanzate, amiche e simili. Questo non ci esimeva in realtà dal presenziare anche ai concerti patavini della POLIFONICA VITALIANO LENGUAZZA, unici momenti in cui potevano aspirare a conoscere (possibilmente, almeno in parte, anche in senso biblico ma in realtà senza speranza di riuscirci), le sopracitate leggiadre donzelle del Liviano. 
Galilei? Copernico? Tasso? Manin? 
Compagni di viaggio che ci avevano preceduto, ma che per noi erano, come si dice pragmaticamente, “non pervenuti”. 
Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna laureata al mondo? Grazie per l’info, ma non avevamo avuto il piacere di conoscerla. E così, esame dopo esame, ognuno di noi arrivò prima o dopo al raggiungimento della meta ed al conseguimento della laurea e relativo esame di stato. 
La vita continuava, il servizio militare incombeva come elemento di “frattura” tra l’età degli studi e quella del lavoro. 
Padova e la sua Università avemmo l’occasione di conoscerla in seguito, per esperienza di lavoro diretta o per approfondimenti culturali individuali. 
Con mal nascosta nostalgia (“quelli erano giorni, sì, erano giorni”), e con la nera feluca di ingegneria dignitosamente riposta in armadio nel mio museo personale, ringrazio i due colleghi citati all’inizio ed i (pochi, spero almeno uno…) lettori che saranno riusciti a seguire fino a qui, (forse anche a condividere) quanto da me ricordato. 
Tanto dovevo e tanto ho dato. 

P.S. Un particolare ringraziamento ai Pink Floyd per avermi concesso l’uso del titolo del loro brano…
Gianni Soleni
Federmanager Venezia

Gianni Soleni Federmanager Venezia