Il coraggio del futuro
La relazione del Presidente Carlo Bonomi all’Assemblea Confindustria, oltre a valorizzare il ruolo e l’importanza delle imprese e dell’industria per il Paese, evoca il desiderio di essere protagonisti del nostro futuro in Europa e nel mondo. Un discorso sul quale riflettere a fondo per evitare di giocarcelo, il futuro.
A cura della redazione
Cliccando il link è possibile scaricare il documento Confindustria sul discorso del Presidente Carlo Bonomi.
Alcuni passaggi significativi del discorso
In questi quattro mesi, ci siamo prodigati con ogni energia applicando i dettami che ci vengono dai nostri due precetti fondamentali.
L’amore per l’Italia.
Certi, come siamo, che in questa nuova grande crisi si possano e si debbano evitare nuovi errori, traendo lezione da quelli compiuti nel post 2008 e negli anni alle nostre spalle, visto che a fine 2019 mancavano ancora 3 punti di PIL rispetto al livello di 11 anni prima.
E l’amore per le nostre imprese.
Per ciò che noi imprenditori, insieme ai nostri collaboratori, clienti e fornitori, siamo in grado di fare al meglio per dissipare incertezza e sfiducia, realizzando, con il concorso di tutti, un percorso di uscita dalla crisi che questa volta sia rapido, solido e sostenibile.
È proprio nell’incertezza che raddoppia di vigore il nostro impegno.
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Rispetto al 2009 le imprese industriali italiane sono entrate nella crisi COVID con maggior patrimonio, meno debiti finanziari, e una quota di export nazionale del 26% superiore a quella del 2009. Le imprese private avevano aumentato il proprio fatturato del 14,6% sul 2010, la manifattura del 20,7%, l’industria del 12,2%.
La ripresa italiana del 2015-2017 l’abbiamo fatta noi. E se essa è stata modesta, per attenuarsi nel 2018 e spegnersi nel 2019 al cui termine eravamo già in recessione tecnica, si deve non solo ai colpi portati al commercio internazionale dal ritorno del protezionismo, ma al fatto che in Italia sono stati commessi errori, come l’abbandono di Industria 4.0 che, per inciso, aveva dato anche ottimi frutti sul versante occupazionale.
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Da troppi anni in Italia manca una visione
Una visione di fondo capace di unire ciò che il nostro Paese sa fare con l’impatto della modernità, l’evoluzione formidabile delle tecnologie, gli effetti che tutto ciò può produrre in una società italiana che, in 25 anni, ha perso reddito e ha aumentato il tasso di diseguaglianza.
Ed è la mancanza di questa visione, a spiegare l’annegarsi della politica in mille misure ad hoc, il proliferare della normativa, l’astrusità delle procedure amministrative, la dilatazione dei tempi giudiziari, la perdita di punti in ogni ranking internazionale, si tratti del PISA (Programme for International Student Assessment) sulle competenze scolastiche o di quello DESI (Digital Economy and Society Index) sul digitale.
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Avere una visione non è solo ciò che spinse, con molti anni di anticipo, i fondatori di Amazon e Apple a capire che il mondo sarebbe stato rivoluzionato da enormi piattaforme di logistica insieme fisiche e digitali, o dalla tecnologia touch screen.
È ciò che ha spinto i raccoglitori di rottami bellici nel Secondo Dopoguerra a dar vita alla siderurgia italiana. Ciò che ha indotto geniali designer a far conoscere l’arredo italiano nel mondo alla fine degli anni Cinquanta. Ciò che, negli anni Sessanta, ha spinto giovani ufficiali della Marina Militare a dar vita ad aziende dell’elettronica della difesa.
Questa è la storia delle quasi 400mila piccole, piccolissime e medie aziende manifatturiere italiane, del loro fatturato - che era risalito oltre i 900 miliardi di euro - prima di spegnere Industria 4.0.
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La capacità imprenditoriale è una storia che continua ogni giorno
Se la chimica italiana oggi è la terza in Europa si deve a questo.
Se la farmaceutica italiana è diventata, proprio in questi ultimi difficili anni, la prima in Europa superando i tedeschi, con la più alta percentuale di addetti giovani e laureati e post laureati dell’intera manifattura italiana, si deve a questo.
Se siamo primi in Europa per il recupero, riutilizzo e riciclo in settori ad alto impatto ambientale come plastica, carta, legno e oli industriali esausti, si deve a visionari consorzi di imprese private nati anni e anni fa.
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Avere una visione significa identificare i tratti di fondo delle trasformazioni che stanno modificando il nostro modo di vivere, di consumare prodotti ed energia, di lavorare, di spostarsi, di curarci.
Avere una visione significa considerare il lavoro a distanza sperimentato nel lockdown come una sfida trasformativa e non temporanea, destinata a identificare nuove modalità dei tempi di lavoro e metriche delle prestazioni per molte mansioni e diversi settori.
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Avere una visione di fondo significa valutare in concreto quali obiettivi e strumenti producono effetti su filiere decisive per la nostra industria e per chi vi lavora, prima di approvare qualsiasi misura sulla sostenibilità ambientale, quali la decarbonizzazione graduale, l’economia circolare, la chiusura del ciclo di trattamento dell’acqua, le nuove infrastrutture energetiche e il crescente utilizzo dell’idrogeno.
Senza fughe millenaristiche in avanti che ci espongano alla fine della siderurgia a ciclo integrato a caldo, o a sussidi che accrescano il nostro deficit estero di bilancia dei pagamenti sull’energia.
Avere una visione di fondo significa rivedere dalle fondamenta il modo in cui si affronta il tema della coesione territoriale tra Nord e Sud.
Sommando le cifre ancora a disposizione a questi fini, non utilizzate o riassegnate all’Italia dei diversi fondi UE, si deduce che il vero problema non sono le risorse, ma la capacità tecnica delle Regioni a minor crescita di impegnarle e spenderle con progetti coerenti alle specifiche tecniche richieste dalla UE.
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Sui conti pubblici serve un’operazione verità.
Primo. Nell’entusiasmo per i 208 miliardi che ci vengono dall’Europa, e che si aggiungono al SURE e alle nuove linee di credito BEI, tende a svanire l’attenzione sul danno certo per il Paese se il Governo rinuncia al MES sanitario privo di condizionalità.
Secondo. Non vorremmo trovarci un domani a constatare che l’onere della parte di Recovery Fund percepita in trasferimenti sia finanziato con nuove tasse solo a carico delle imprese, specie di quelle che producono e danno occupazione in Europa: plastic tax, carbon tax, web tax o quel che si voglia.
Terzo. Non si scorge ancora una prospettiva solida di interventi che diano sostenibilità al maxi debito pubblico italiano, il giorno in cui la BCE dovesse terminare i suoi interventi straordinari sui mercati grazie ai quali oggi molti si illudono che il debito non sia più un problema.
Anche questa non è una posizione ideologica. Come ci ha ricordato ancora una volta Mario Draghi, nella crisi la differenza non è tra più o meno debito, ma tra quello “buono” e “non buono”. La differenza è che il primo rende il debito meglio sostenibile attraverso meno spesa corrente, ma con più investimenti che alzino la produttività e riforme strutturali che estendano mercato e lavoro creando più coesione sociale.
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A chi ha chiesto da dove venisse tanta forza, Alex Zanardi ha risposto: “La vita è come il caffè: puoi metterci tutto lo zucchero che vuoi, ma se lo vuoi far diventare dolce devi aver voglia e forza di girare il cucchiaino. A stare fermi non succede niente”.
Ecco, all’Italia di oggi serve un po’ di quello spirito di Alex. Dobbiamo girarlo con forza, quel cucchiaino. Tutti insieme.
E una volta per tutte, basta dire che gli imprenditori chiedono cose irreali e irrealizzabili. Era la stessa accusa rivolta a Henry Ford, il pioniere della motorizzazione industriale di massa. Che rispondeva sorridendo: “Impossibile? Ricordatevi che gli aerei decollano ogni giorno controvento, non col vento in coda”.
Ecco, questo è lo spirito che serve.
Scelte per l’Italia del futuro.
Scelte anche controvento.
Il coraggio del futuro.
01 ottobre 2020