Dirigenti industria e cariche societarie

Attenzione alle responsabilità e all’ampiezza delle deleghe

Avv. Marco De Bellis

Studio Marco De Bellis & Partners
Molto spesso, soprattutto se ricopre posizioni apicali, al dirigente industriale viene proposto di ricoprire delle cariche societarie vuoi come amministratore, vuoi come amministratore delegato o in qualche caso come presidente del Consiglio di Amministrazione.
Si tratta di un’opportunità dal punto di vista della visibilità della carriera e dello status, che tuttavia implica anche rischi e criticità.
L’amministratore, infatti, è potenzialmente soggetto ad eventuali conseguenze di natura penale per qualsivoglia vicenda illecita (o presunta tale) che possa coinvolgere l’azienda.
Sono in effetti innumerevoli i reati di cui un amministratore può essere chiamato a rispondere, in virtù della carica ricoperta.
Soltanto per esaminare i principali, possiamo indicare: i reati societari (artt. 2621 e ss Cod.Civ.); i reati previsti in materia di sicurezza sul lavoro; i reati tributari (D.Lgs. n. 74/00); i reati fallimentari (previsti dall’art. 216 e ss del R.D. 267/42); i reati ambientali (art. 452 bis c.p. e D.Lgs. n. 152/06), i reati finanziari (D.Lgs. n. 58/98); i reati connessi con la violazione della privacy (art. 167 D.Lgs n. 196/2003); per le aziende del settore, i reati alimentari (artt. 440, 442, 444, 516, 517 quater c.p.).

In aggiunta, la stessa attività dell’amministratore deve essere svolta con particolare diligenza e nel totale rispetto non solo della legge ma anche dello statuto sociale; in caso contrario, possono verificarsi ulteriori fattispecie penalmente rilevanti, come ad esempio quelle legate alle comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 Cod. Civ.).

L’eventuale commissione di reati, peraltro, non è esclusa neppure nel caso di un consigliere privo di qualsivoglia delega; ad esempio, quando questi sia a conoscenza di eventuali operazioni illecite realizzate dagli altri componenti del CdA e non abbia intrapreso adeguate misure per prevenirle o censurarle.
In effetti, il Consiglio di Amministrazione, nella persona di ogni singolo componente, ha il potere e il dovere di denunciare ed impedire eventuali condotte illecite di altri componenti.
Neppure è sufficiente che il consigliere non sia a conoscenza di eventuali condotte illecite di altri componenti: infatti, potrebbe essere contestata la negligenza e/o una responsabilità di natura colposa, rilevante in sede civilistica (nell’ambito di un’azione di responsabilità di risarcimento danni).

Molto più grave sarebbe inoltre la circostanza in cui l’amministratore, pur essendo a conoscenza di eventuali comportamenti illeciti, abbia omesso volontariamente di assumere qualsivoglia iniziativa.
In questo caso scatterebbe la responsabilità di natura penale.
Tali rischi di natura penale restano a carico dell’amministratore anche dopo la cessazione della carica, relativamente a fatti illeciti verificatisi durante la sua permanenza nel Consiglio di Amministrazione.
Dall’altra parte, sotto il profilo civilistico, l’amministratore è anche passibile di azione di responsabilità da parte dell’azienda in qualunque caso di (pretesa) malagestio.

Prima di accettare di ricoprire la carica di amministratore, pertanto, è opportuno chiedere adeguate coperture assicurative relativamente alle conseguenze economiche che potrebbero incorrere durante l’esercizio del mandato, ivi compresa la necessità di dover sostenere delle spese legali per la propria difesa, in qualunque sede.
Sulla responsabilità penale, viceversa, non esistono “scudi” adeguati, trattandosi di responsabilità che ricade direttamente sulla persona dell’amministratore.

Indipendentemente da quanto sopra, la carica di amministratore con ampie deleghe ed ampi poteri, magari da esercitarsi a firma singola, può costituire un problema relativamente alla coesistenza con lo status di dirigente/dipendente.
Infatti, pur essendo collocato ai vertici della gerarchia aziendale, il dirigente è un prestatore di lavoro subordinato e come tale deve comunque essere oggetto passivo di subordinazione, pur se attenuata e nell’ambito di direttive di carattere generale.
Dunque, mentre il dirigente, come detto, deve essere un lavoratore subordinato (e dunque deve “dipendere” da un altro soggetto), l’amministratore ricopre un (diverso) incarico societario e può essere munito di deleghe che gli consentono di assumere autonomamente decisioni tali da vincolare l’intera azienda, anche nei confronti di terzi, consentendogli talvolta di manifestare da solo la volontà dell’impresa di cui egli è organo.
Quest’ultima situazione è del tutto incompatibile con le caratteristiche e la figura del dirigente-dipendente.
Ciò in quanto, pur se non destinatario di ordini dettagliati e controlli minuziosi come un impiegato, il dirigente – ripetesi – deve essere pur sempre sottoposto alla direzione e al controllo di un altro soggetto all’interno dell’azienda (la cosiddetta “eterodirezione”): queste sono le imprescindibili premesse perché l’amministratore possa essere ritenuto (anche) un prestatore di lavoro subordinato (art. 2094 Cod. Civ.), pur se inquadrato nella categoria dirigenziale.

In sostanza, lo status di dirigente è compatibile con la carica di amministratore solo qualora quest’ultimo non sia titolare di deleghe di ampiezza tale da consentirgli di gestire l’intera azienda e sia comunque sottoposto al controllo e alla direzione di qualche altro soggetto e/o organo dell’azienda datrice di lavoro.
Sul punto la giurisprudenza è assolutamente costante e univoca (Cassaz. 8 giugno 2023 n. 16254, Cassaz. 13 giugno 2008 n. 16045, Cassaz. 19 maggio 2008 n. 12630, Cassaz. 21 maggio 2002 n. 3465).
In particolare: “occorre accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita” (Cass. 36362/2021).

Inoltre, secondo gli indirizzi lavoristici, la qualità di amministratore di una società di capitali è cumulabile con quella di lavoratore dipendente della medesima società, ma solo se sia “individuabile – la formazione di una volontà imprenditoriale distinta, tale da determinare la soggezione del dipendente-amministratore ad un potere disciplinare e direttivo esterno” (Cassaz. 8 giugno 2023 n. 16254).

Insomma: “l’amministratore di una società di capitali può assumere la qualità di dipendente della stessa qualora non sia amministratore unico (anche se solo di fatto) ma membro di un consiglio, ancorché investito di mansioni di consigliere delegato, in modo che la costituzione e la gestione del rapporto di lavoro siano ricollegabili ad una volontà della società distinta da quella del singolo amministratore” (Cassaz. 17 giugno 2024 n. 21759).
Dunque, lo status di dirigente è sicuramente incompatibile con la carica di amministratore unico, in quanto costui è il soggetto che rappresenta la volontà dell’azienda e non è sottoposto al controllo e alla subordinazione di chicchessia.

Viceversa, il dirigente può ricoprire contemporaneamente la carica di amministratore, anche delegato, della stessa azienda qualora sia sottoposto al controllo di un altro soggetto, che potrebbe essere sia il Presidente del Consiglio di Amministrazione sia l’intero Consiglio.
Per questi motivi, qualora il dirigente dovesse contemporaneamente ricoprire cariche societarie presso la stessa azienda datrice di lavoro, sarebbe opportuno prestare particolare attenzione all’ampiezza delle relative deleghe; ciò avendo l’accortezza di verificare che le funzioni dell’amministratore/dirigente siano svolte seguendo le direttive generali del Consiglio di Amministrazione e/o del Presidente, organi cui competerebbe anche il compito di controllare e coordinare l’attività.

Sulla scorta delle considerazioni svolte, è sconsigliabile accettare cariche che prevedano poteri tali da poter assumere delle decisioni vincolanti per l’intera azienda, in modo autonomo, senza le supervisioni e controllo (o almeno il coordinamento) di altri soggetti.
Ciò vale, a maggior ragione, quando nelle deleghe sia previsto il potere di vincolare la società a firma singola.

Insomma, è possibile ricoprire cariche societarie nell’ambito dell’organismo collegiale (Consiglio di Amministrazione), purché i poteri risultanti dalle deleghe siano chiaramente definiti entro limiti ben precisi e sia espressamente prevista la soggezione a direttive, seppur di carattere generale, ad un altro soggetto che deve essere necessariamente un organo societario.

Esaminiamo le varie ipotesi.

Per il consigliere di amministrazione, non munito di deleghe, la situazione non presenta particolari criticità: non essendo prefigurabile in capo al semplice consigliere, non munito di deleghe, l’attribuzione di poteri tali da mettere in discussione il suo status di dipendente-
dirigente.

Più delicata, viceversa, è la situazione del consigliere delegato o addirittura del Presidente del Consiglio di Amministrazione.
Riguardo al consigliere delegato occorre, ovviamente, prestare la massima attenzione alla formulazione delle deleghe attribuite al medesimo.
Nella formulazione delle deleghe, infatti, deve essere espressamente prevista la necessità che i relativi poteri vengano esercitati in coordinamento e dietro controllo dell’intero Consiglio di Amministrazione o del Presidente (del Consiglio di Amministrazione) a cui il consigliere delegato dovrebbe comunque far riferimento nell’esercizio delle sue funzioni.

Situazione analoga, anzi ancor più delicata, è quella del Presidente del Consiglio di Amministrazione, poiché costui non ha tecnicamente alcun soggetto sovraordinato.
Tuttavia, è possibile teoricamente mantenere lo status di dipendente-
dirigente, qualora nell’attribuzione della carica sia espressamente prevista la sua soggezione nei confronti dell’intero Consiglio di Amministrazione, con l’espressa previsione che il Presidente debba coordinarsi con l’organo collegiale nell’esercitare le proprie funzioni, relazionandolo (perlomeno per le decisioni più importanti) per ottenerne l’espressa approvazione.

Questo in linea generale.

Dal punto di vista pratico, peraltro, in aggiunta alla puntuale verifica dell’ampiezza delle deleghe e delle modalità attraverso le quali devono essere esercitati i poteri, è consigliabile che il dirigente amministratore non deliberi mai a firma singola, ma viceversa chiedendo sempre la sottoscrizione da parte di un altro soggetto componente dell’intero Consiglio, se possibile sovraordinato (se consigliere è meglio chiedere anche la sottoscrizione di un consigliere delegato o del Presidente, se consigliere delegato anche del Presidente, se Presidente anche di altri consiglieri).

È importante soffermarsi su questi aspetti perché l’eventuale accertata incompatibilità tra i poteri di amministratore e lo status di dirigente, comporterebbe per quest’ultimo il venir meno dello status di prestatore di lavoro subordinato (e dunque anche dello status di dirigente), con la riqualificazione del rapporto, da dirigente a mero consigliere di amministrazione con la perdita della contribuzione da dirigente per il periodo della carriera societaria (cfr. Messaggio INPS n. 9869/12).

Inoltre, sotto il profilo previdenziale, tutti i contributi indebitamente versati per la posizione dirigenziale verrebbero restituiti dall’INPS all’azienda senza interessi (art. 13 Legge 22 luglio 1966 n. 616).
Indipendentemente dalle vicende previdenziali, inoltre, perdendo lo status di dirigente, il soggetto perderebbe anche tutte le tutele previste dal contratto collettivo, tra cui il diritto al periodo di preavviso nel caso di licenziamento nonché all’indennità supplementare in caso di licenziamento ingiustificato, ai sensi dell’art. 19 del contratto collettivo medesimo.

In conclusione, se l’attribuzione di una carica societaria può sicuramente rappresentare un significativo traguardo professionale, essa va valutata con estrema attenzione e la dovuta prudenza

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