Donne e giovani alle porte del ricambio generazionale
Il rapporto dell'Osservatorio 4.Manager sul lavoro manageriale evidenzia con i numeri l'insostenibilità del gender gap italiano.
Maria Cristina Origlia
Presidente Forum della Meritocrazia e Giornalista Il Sole 24 Ore
Non possiamo prescindere dai numeri per capire la portata di un fenomeno. Né possiamo sottrarci alla necessità della misura e del confronto per valutare gli scostamenti nel percorso teso al miglioramento. Ma, una volta disegnata la mappa dei dati, bisogna avere il coraggio di andare oltre, per comprendere a fondo la realtà sottesa e le leve che possono sovvertirla.
Sull'uguaglianza di genere, l'impressione – a giudicare dalla lentezza esasperante con cui si muove – è che conoscere i numeri non sia affatto sufficiente a scatenare un moto di cambiamento, degno di questo nome.
Da decenni ormai abbiamo a disposizione indici nazionali e internazionali che ci inchiodano a un ritratto umiliante, ma il Paese rimane semi-immobile, come se della parità di genere non sapesse che farsene. E, in effetti, l'Eurobarometro ci dice che la promozione della gender equality è considerata importante solo da un quarto degli italiani, pur generalmente riconoscendone la mancanza. Ma la stragrande maggioranza non riesce ancora a capirne gli effetti sullo sviluppo socio-economico del Paese.
Per questo, mi hanno scosso le parole di Giuseppe Torre, responsabile scientifico dell'Osservatorio 4Manager, nel commentare tra le righe i dati del Rapporto “Nuovi Orizzonti manageriali. Donne al timone per la ripresa del Paese”, quando ha detto: “Ciò che abbiamo colto è un crescente senso di intolleranza a sopportare ulteriormente la situazione e una fortissima richiesta di cambiamento”. Questo è IL dato più importante di tutta la ricerca. Ed è su questa insofferenza che si deve fare leva, subito, inderogabilmente, per scardinare secoli di miopia.
Ci sarà ancora chi derubricherà il tema della parità come una “robetta da donne”, ma come afferma il direttore di 4.Manager, Fulvio D'Alvia, sarà sempre più isolato e screditato dal mercato. La motivazione sta nel fatto che l'epoca storica in cui viviamo ha bisogno per sopravvivere di conoscenza diffusa, nella società così come in economia. Ovvero, di capitale umano, intelligenza collettiva, competenze e "talentuosità". Quindi, la sfida è creare le condizioni affinché tutto ciò possa emergere ed essere valorizzato, attraverso un cambiamento profondo dei modelli di governance e organizzativi sia a livello macro che a livello micro. Capite bene, allora, che di fronte a un'evoluzione di tale portata, rifiutarsi di accettare la realtà dei fatti – ovvero la piena parità di genere, nella forma e nella sostanza – sarebbe una scelta semplicemente perdente. Tanto quanto continuare a ignorare l'impatto del gender gap sul benessere sociale, che si riscontra in valori sempre più preoccupanti del tasso di fecondità e di povertà infantile.
La vera emergenza del Paese
La presa di consapevolezza, per quanto primo passo essenziale, non è sufficiente. Creare un ecosistema basato sulla conoscenza come asset strategico su cui competere significa rigenerare le radici sui cui poggia l'intero sistema italiano, pubblico e privato. Lo spiega Roger Abravanel nel suo libro fresco di stampa “Aristocrazia 2.0”, in cui chiarisce quanto la meritocrazia sia la base sulla quale, nella storia, i Paesi hanno costruito la loro crescita, definendola quel movimento sociale ed economico che spinge i giovani a cercare le migliori lauree per raggiungere uno standard di vita superiore rispetto a quella dei propri genitori. In Asia, anche se il termine meritocrazia non esiste, il Paese affonda le radici nel pensiero di Confucio – peraltro riscoperto da milioni di giovani negli ultimi anni -, basato sulla convinzione che la società debba essere guidata dai più istruiti e selezionati.
Se guardiamo all'Italia, i numeri ci costringono a riflettere su una realtà drammatica. In base ai dati Ocse, “si stima che il disinvestimento italiano su scuola, università e ricerca pesi su un ventiquattrenne per un valore complessivo di 150mila euro. Detto altrimenti, la media dei Paesi europei punta sui giovani 470mila euro nei primi 24 anni della loro vita, mentre l'Italia è ferma a 320mila euro: ai giovani italiani mancano 85 miliardi di investimenti l'anno per il loro futuro, sintomo di decenni di una bilancia intergenerazionale fuori equilibrio” spiegavano Gaia Van Der Esch e Tommaso Cariari su L'Espresso del 27 dicembre scorso. A tale sbilancio si sommano i numeri impressionanti di giovani talenti regalati a Paesi stranieri, che di recente si è cercato di incentivare al rientro attraverso benefici fiscali, con scarsi risultati.
Secondo il Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes (su dati di Controesodo), oltre il 50% di chi è tornato negli ultimi anni è già ripartito, e numerosi sono coloro in procinto di farlo. La pandemia ha riportato temporaneamente in patria un certo numero di connazionali - soprattutto giovanissimi con impieghi precari in Paesi stranieri –, ma si tratta di un fenomeno passeggero. La verità è che si tratta di una vera emergenza, a cui oggi si tenta ottimisticamente di rimediare con il il progetto “Talenti del Sud per il Sud”, una piattaforma volta a costruire scambi, partnership, alleanze tra gli italiani che se ne sono andati e quelli rimasti in patria, inserito nel "Piano Sud 2030" del Ministro per il Sud e la Coesione Territoriale, Giuseppe Provenzano. Il credito d'imposta per ricerca e sviluppo inserito nella legge di Bilancio e l'avvio degli Ecosistemi dell'innovazione, che vorrebbero replicare il modello virtuoso del Polo Tecnologico di San Giovanni a Napoli, cui saranno destinate parte delle risorse del Next Generation EU, dovrebbero fare il resto. Ma forse si stanno facendo i conti senza l'oste.
Il vero problema – e torniamo a una valutazione qualitativa - è la non attrattività del nostro mercato del lavoro, imbalsamato in una cultura organizzativa gerontocratica, si legge ancora nel rapporto. E potremmo aggiungere meritocratica, l'unico motore di un ascensore sociale bloccato da decenni, come il Forum della Meritocrazia sostiene da tempo. In sintesi, ben vengano le risorse economiche, ma da sole non basteranno a invertire la rotta del declino che già si sta abbattendo su giovani e donne.
Il ricambio generazionale alle porte
Eppur si muove, verrebbe da dire. L'insperata apertura di Bruxelles verso i Paesi più colpiti dalla pandemia e, in particolare, verso l'Italia, è stata una scelta etica, certo, ma ancor più strategica. In un'Europa che si è mostrata capace di ricompattarsi di fronte all'emergenza, rifocillata dalla vittoria di Biden-Harris alla Casa Bianca, e rafforzata almeno negli ideali da una Brexit, che ha dimostrato anche ai più scettici quanto poco convenga correre da soli, l'Italia riveste ancora un ruolo importante.
In questo contesto, non riuscire a dare il colpo d'ala necessario per fare una svolta decisiva nella nostra storia sarebbe davvero imperdonabile. Un aspetto poco conosciuto, ma di grande rilevanza, che ha messo in risalto il lavoro dell'Osservatorio 4.Manager è il ricambio generazionale alle porte, che interessa tutta l'Europa. Secondo lo studio, nei prossimi 18-24 mesi una quantità ingente di baby boomers nelle aziende private e nella pubblica amministrazione andranno in pensione, lasciando il campo libero a un rinnovo manageriale che potrebbe rivelarsi decisivo. Non solo per i giovani, ma anche per figure con una certa seniority – tra queste, in primis, le donne - pronte a portare una ventata di cultura innovativa, open mind, trasparente, collaborativa e inclusiva.
Ed è qui che entra in gioco la responsabilità delle parti sociali nel preparare tale ricambio, attraverso un piano strutturato di formazione e di accompagnamento all'evoluzione della cultura d'azienda estremamente mirato. Una consapevolezza che è emersa – durante la presentazione del rapporto di 4.Manager - dalle parole del Presidente di Federmamager, Stefano Cuzzilla, e dagli esponenti di Confindustria, Maurizio Stirpe, Vicepresidente Lavoro e Relazioni industriali, e Pierangelo Albini, Direttore Lavoro, Welfare e Capitale umano, che si deve tradurre senza la minima esitazione in azioni concrete e sinergiche.
E che la politica intera dovrebbe sostenere con la stessa tenacia e convinzione mostrate dalle due ministre intervenute: Elena Bonetti con un invito alla corresponsabilità, come unica postura utile a superare le barriere culturali ancora in essere, e Nunzia Catalfo che ci richiama a una visione sistemica e a interventi integrati a favore dell'occupazione, sostenuti da quelle politiche attive del lavoro, mai decollate in Italia.
In quest'ottica, il Piano Nazionale di Ripartenza e Resilienza, in cui confluiscono le risorse del Next Generation EU, dovrebbe essere visto come un impegno inderogabile verso noi stessi e il nostro futuro ancor più che come una dimostrazione verso l'Europa. Il momento è propizio.
01 febbraio 2021