Il Direttore d'Orchestra e i nuovi solisti: trasformare la sfida generazionale in un vantaggio competitive

Come evitare la "Frattura Silenziosa" e costruire un’alleanza tra esperienza e innovazione

Marco Del Mancino 

Socio ALDAI-Federmanager e componente del Gruppo Giovani; Dirigente farmaceutico e docente

Scrivo questo articolo con in mente un’immagine precisa. Recentemente sono tornato nell'aula universitaria dove sedevo 24 anni fa, questa volta dall'altra parte della cattedra. Guardando negli occhi i miei studenti, la Generazione Z, ho capito che quello che stiamo vivendo nelle nostre aziende non è un semplice "cambio della guardia", ma una trasformazione antropologica del concetto stesso di lavoro. 

Spesso, nei corridoi delle nostre imprese o durante i convegni, sento liquidare questa generazione come fragile, poco dedita al sacrificio o priva di ambizione. Eppure, permettetemi di condividere una prospettiva diversa, maturata sul campo: non siamo di fronte a una rinuncia, ma a una ridefinizione. E ignorarla è un lusso che il sistema industriale italiano non può permettersi.
 

La matematica non è un'opinione: l'onda anomala è già qui 

Partiamo dai fatti, perché noi dirigenti amiamo i dati. Non stiamo parlando di una nicchia sociologica. Le proiezioni demografiche parlano chiaro: entro il 2030, la Gen Z rappresenterà oltre il 30% della forza lavoro in Italia. Questo significa che tra cinque anni, un terzo delle persone che guideremo, assumeremo o promuoveremo apparterrà a questa coorte demografica. Gestire il futuro con le regole del passato non è solo difficile: è il rischio più grande che possiamo correre. 

Oltre lo stereotipo: la ricerca di senso 

Cosa cercano davvero questi ragazzi? Secondo uno studio di Bailey e Owen pubblicato sulla Harvard Business Review (2020), ben il 72% dei lavoratori della Gen Z antepone la soddisfazione personale e il work-life balance al salario. Attenzione, però: non scambiamo questo dato per pigrizia. Nella mia esperienza di mentoring, ho visto che la Gen Z non rifiuta il lavoro duro; rifiuta il lavoro privo di senso. A differenza della mia generazione (i Millennial) o della vostra, che spesso hanno accettato il compromesso tra vita e carriera, per loro questa dicotomia non esiste. Cercano un approccio olistico: il lavoro è una parte della vita, importante, ma integrata in un tutto che deve essere sostenibile. 

C'è un dato ancora più forte che deve farci riflettere come manager, evidenziato dal Randstad Workmonitor 2024: il 49% di questi giovani talenti non accetterebbe un'offerta da un'azienda non allineata ai propri valori. Questo ci pone di fronte a quella che viene definita la "Frattura Silenziosa". Se la cultura aziendale non evolve, se c'è un disallineamento valoriale, il risultato non è il conflitto aperto, ma il disimpegno o la fuga dei cervelli migliori verso lidi (spesso esteri) più accoglienti. 

Dal "task" al "purpose": il nuovo spartito del leader 

Come possiamo, noi dirigenti formati su modelli gerarchici e di controllo, guidare questa transizione? La risposta non sta nell'abdicare al nostro ruolo, ma nell'evolverlo. Dobbiamo pensare a noi stessi meno come a dei "capi reparto" e più come a dei direttori d'orchestra che devono armonizzare strumenti nuovi. 

Come sottolinea Michael Dimock, Presidente del Pew Research Center, "le generazioni sono una lente per capire il cambiamento, non un'etichetta per semplificare le differenze". Per tradurre questo in pratica, serve adottare quello che potremmo chiamare un "manager's playbook" aggiornato. Il passaggio fondamentale è quello che porta dal semplice "assegnare un task" (un compito) al "condividere un purpose" (uno scopo). 
Quando assegnavo progetti ai miei studenti, ho notato che la qualità dell'output cambiava radicalmente se spiegavo il "perché" profondo di quell'attività, il suo impatto etico e sociale. La Gen Z vuole sapere che il proprio tempo – la risorsa più preziosa che hanno – è investito in qualcosa che conta. 

Un patto intergenerazionale: l'esperienza incontra la visione 

Qui entra in gioco il ruolo insostituibile dei Soci ALDAI. La vostra esperienza, la capacità di navigare le complessità organizzative, la resilienza costruita in decenni di carriera sono asset che i giovani non possiedono. Ma loro hanno la "vista periferica" sul futuro, la naturalezza con le nuove tecnologie e una sensibilità etica che oggi è un imperativo di business. 

L'insegnamento più grande che ho ricevuto tornando in aula è che il mentoring è una strada a doppio senso: è tanto dare quanto ricevere. Mentre noi insegniamo loro come si sta in azienda, loro ci insegnano come l'azienda dovrà essere domani per sopravvivere. 

Non dobbiamo diventare come loro, né pretendere che loro diventino come noi. La sfida è costruire un ambiente dove queste diversità non creino attrito, ma energia. Dobbiamo accettare che la carriera non sarà più lineare come un tempo, che concetti come "salute mentale" e "benessere" non sono debolezze ma KPI di sostenibilità umana. 

Il nostro compito, come dirigenti di oggi e di ieri, è preparare il terreno. Non per lasciare il posto, ma per far crescere il raccolto insieme. Perché se è vero che i giovani sono il futuro, è altrettanto vero che il presente siamo noi, e sta a noi decidere se costruire muri o ponti. 

Io scelgo i ponti. E voi? 

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