PIL e FIL in webinar
Da Torino uno sguardo critico all’attualità e al futuro prossimo venturo
Giuseppe Colombi
Consigliere ALDAI-Federmanager e componente del comitato di redazione Dirigenti Industria
Giorni difficili questi: da reclusi in casa, al massimo possiamo partecipare ad eventi virtuali. Un piccolo seminario su un argomento d’interesse comune (prodotto interno lordo e sua relazione con la felicità) diventa un “webinar” da seguire su una delle tante piattaforme che ci garantiscono questa nuova forma di socialità computerizzata. Così, quando l’amico past-president di Federmanager Torino, Renato Valentini, ha organizzato l’evento, è venuto facile partecipare. Nell’introduzione Renato ci ha invitato a riflettere su “Quanto l’economia del Prodotto interno Lordo (PIL) sia conciliabile con la felicità, rappresentata dall’acronimo un po’ faceto della Felicità Interna lorda (FIL). P. Marchese, intervenuto di seguito, ha rilevato come mettere in discussione il PIL significa criticare non un indicatore macroeconomico, che comunque ha una sua rilevanza, ma l’uso distorto che se ne è fatto. Ed ha citato Papa Francesco nella considerazione per cui “il sistema economico moderno ci ha quasi obbligati a sfruttare irrazionalmente sia la natura sia gli esseri umani…” Altri interventi hanno sottolineato i diversi aspetti della questione, ma uno in particolare, sviluppato in forma scritta dopo la conclusione del webinar, colpisce per ampiezza e profondità di trattazione.
Ne pubblichiamo di seguito una sintesi che bene riassume il senso dell’intero evento.
Rapide riflessioni su PIL, FIL, disuguaglianze
Angelo Luvison
Associato Federmanager Torino
Felicità et similia
La nozione di felicità è dipendente dal contesto e dal dominio di competenza, tant’è che filosofi, economisti, psicologi cognitivisti e neuroscienziati la declinano in modi assai diversi e, peraltro, non riconducibili a una metrica unica, meno che mai condivisa.
Neanche la ben nota piramide dei bisogni di Maslow – evoluzione della concezione di Epicuro – è suscettibile di una misura quantitativa (né Maslow lo pretendeva). E poi siamo in presenza di un lessico caratterizzato da termini latamente correlati, quali welfare, benessere, salute e qualità della vita, utilità, divertimento ecc. Prendendo in prestito dallo scrittore G. Papi, il neologismo happydemia, ma non il suo significato, mi sembra che oggi siamo proprio in una situazione di happydemia (non solo di infodemia) per sottolineare come il concetto di felicità, benché ampiamente studiato, resti elusivo sotto il profilo sia razionale sia quantitativo.
Oltre il PIL: quale FIL?
Si può tranquillamente concordare sul fatto che il PIL (il GDP dei Paesi anglosassoni) sia uno strumento tutt’altro che perfetto (peraltro, negli USA e non solo permane un obiettivo primario la sua crescita insieme a lavoro e piena occupazione– nonostante lo storico discorso critico di Robert Kennedy). Oggi il Nobel J.E. Stiglitz, afferma che l’ossessione per un solo indicatore economico, il PIL, ha peggiorato la salute delle persone, la felicità e l’ambiente, perché non è niente di più che una misurazione delle attività del mercato. Quindi il PIL, pura misura della prosperità, dovrebbe essere utilizzato limitatamente a questo contesto.
Nell’ultimo decennio, partendo dalle indicazioni di Stiglitz, A. Sen (ancora un Nobel), J.-P. Fitoussi e altri economisti, organismi internazionali (OCSE, ONU), l’UE e diverse nazioni stanno studiando come incorporare nuovi parametri (per lo più statistici) nei processi decisionali, sulla base di un insieme (dashboard o pannello) di indicatori, tipicamente 11, che dovrebbero misurare la qualità della vita.
Un problema, non secondario, è che alcuni indicatori tipici possono essere diversi da Paese a Paese. Il PIL, pur con tutti i suoi limiti, si basa su una metrica quantitativa , aspetto che piace ai ricercatori delle scienze cosiddette dure, mentre le varie forme di FIL, al momento, non ancora.
E la disuguaglianza?
Sulla disuguaglianza della ricchezza, che sta aumentando in molte nazioni a un ritmo allarmante, segnalo l’eccellente articolo divulgativo di Bruce Boghosian (Le Scienze, febbraio 2020). A livello mondiale, dice Boghosian, 26 individui nel 2019 (nel 2010 erano 388) possedevano la stessa ricchezza personale di tutta la metà più povera della popolazione mondiale: circa 3,5 miliardi di persone.
Anche i colossi delle piattaforme, i cosiddetti FAANG, ovvero Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google, pur essendo pochi, sono straordinariamente ricchi. Le metriche per misurare la disuguaglianza economica sono davvero molteplici: distribuzione di Pareto, curva di Lorenz, coefficiente di Gini, elefante di Milanovic.
Nel 1992 il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo pubblicò un grafico raffigurante la distribuzione globale del reddito per quintili. La forma a “coppa di champagne” che ne risultò, divenne il simbolo facilmente riconoscibile del divario tra ricchi e poveri. Quasi trent’anni dopo, la percentuale di reddito che percepisce il 20% più povero della popolazione rimane sotto il 2%, mentre è cresciuta dal 18% nel 1990 al 22% nel 2016 la quota che percepisce l’1% più ricco.
Il citato articolo de Le Scienze riassume in una sintesi divulgativa, ma rigorosa, le ragioni endogene per cui la ricchezza, oltre a distribuirsi in maniera non uniforme (per es., secondo una curva paretiana), tende naturalmente e inevitabilmente a concentrarsi, in assenza di provvedimenti politici adeguati – anche se si parte dalla condizione di uguaglianza assoluta e con regole del gioco uguali per tutti i partecipanti. Inevitabilmente, alla fine la ricchezza si condensa nelle mani di pochi partecipanti (regime di oligarchia), al limite di uno solo.
In aggiunta a quella economica, altre disuguaglianze – la sociale, l’ambientale, la cognitiva – si sono accentuate negli ultimi decenni e sarebbero, quindi, da tenere in debito conto.
Politiche (policies) economiche
Il paradigma oggi dominante (o mainstream) dell’economia globale e globalizzata è il neoliberismo. Ma questo sta evidenziando tutti i suoi limiti per la crescita, per la disuguaglianza, per l’ambiente.
Il ritorno a oculate politiche keynesiane che privilegino crescita e sviluppo, insieme con la ricerca e la formazione tecnico-scientifica, può essere strumento efficace per superare gli effetti nefasti della più che decennale crisi economica – soprattutto nel nostro Paese – e dell’attuale pandemia di COVID-19. Dopo lo scoppio della bolla finanziaria (2007-2008), le politiche keynesiane hanno dimostrato di poter funzionare: paesi come l’Australia che hanno avviato per tempo programmi di stimolo dell’economia e ad ampio raggio, sono usciti dalla crisi più in fretta. Purtroppo, sull’opzione keynesiana, il nostro Paese è penalizzato da troppi vincoli sistemici, non solo congiunturali.
Effetto Seneca
Un monito di Seneca, in una lettera all’amico Lucilio, dice “Nunc incrementa lente exeunt, festinatur in damnum”, liberamente interpretabile come: “Oggi si cresce lentamente, [ma] si va assai rapidamente in malora”. In termini semplici: la crescita economica parte lentamente, raggiunge un massimo di saturazione (secondo la ben nota curva logistica), dopodiché il collasso è rapido, talora rapidissimo, con esiti catastrofici. Su questo effetto è disponibile una monografia scientifica del fisico Ugo Bardi: The Seneca Effect: Why Growth is Slow but Collapse is Rapid.
Tornare al passato?
Con una divagazione un po’ ironica, si potrebbe citare la Sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock, una incredibile galleria di personaggi quanto mai bizzarri. Nel racconto, l’utopista Aaron Rosenblum, personaggio di mera fantasia, concepisce l’ambizioso progetto, denominato Back to Happiness, di ricondurre l’umanità indietro all’epoca elisabettiana. Davvero esilaranti benché demenziali sono gli elenchi delle conquiste moderne e contemporanee da abolire (per es., “il motore, i giornali, gli Stati Uniti, Newton e la gravitazione, la chirurgia, i musei, il weekend, l’istruzione obbligatoria…”), oppure di tutto ciò che si sarebbe dovuto ripristinare (come “la schiavitù, i roghi per le streghe, gli attacchi dei bucanieri ai galeoni spagnoli, il fango e le pozzanghere [nelle città], l’istituto del vassallaggio, l’ordalia nei tribunali…, insomma il passato”).
Rosenblum ricorda certi guru mediatici e fondamentalisti d’oggi fautori di un ritorno al passato, a decrescite felici, magari a “nuovi Rinascimenti. Ogni riferimento a personaggi quali S. Latouche o M. Pallante, nonché a filosofi neoidealisti italiani epigoni di M. Heidegger, non è casuale.
Il sociologo Zygmunt Bauman aveva proposto il neologismo “retrotopia” per indicare l’atteggiamento di coloro che in un’epoca di incertezze preferiscono guardare al passato anziché a un futuro migliore. Non stupiamoci più di tanto se, in questo humus tecnofobo, nascono, crescono e prosperano i movimenti no-vax, no-mask, no-5G, …, no-tutto.
Ciò detto, vi sono però lavori seri che, in alternativa alla decrescita felice, cercano di coniugare la prosperità con i limiti sociali e ambientali
Conseguenze economiche, sociali e ambientali e responsabilità etiche
Max Weber, ripreso anche da Norberto Bobbio e altri, distingue fra l’etica dei principi (o delle convinzioni) e l’etica della responsabilità.
La prima è un’etica assoluta, di chi opera solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze: “Avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.
La seconda, l’etica della responsabilità, si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo e il suo gruppo di appartenenza mettono in atto. Esige quindi una precisa assunzione di responsabilità (accountability).
Oggi, in particolare, l’accountability è fondamentale circa il futuro dell’Intelligenza Artificiale (IA): le macchine, è presumibile, saranno dotate di una crescente autonomia, ma, auspicabilmente, sotto la supervisione degli esseri umani, che dovranno quindi assumersi ancor più la responsabilità di un comportamento etico. La governance tramite standard e processi trasparenti è indispensabile per realizzare la piena sicurezza dei sistemi di IA in modo da conseguire la fiducia di buona parte dell’opinione pubblica.
Come chiudere il cerchio
Per realizzare questa visione di responsabilità, vero e proprio umanesimo digitale, occorre che dialogo e dialettica ritornino ad essere gli strumenti per recuperare episteme (il dominio della conoscenza) e techne (perizia progettuale e realizzativa) in una proficua unità di intenti. Solo dalla sintesi delle culture umanistica e tecnico-scientifica l’uomo potrà conservare la propria centralità: questo è l’auspicio delle persone più consapevoli e informate.